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Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello

Autore: Mauruzio Stefanini
Testata: Il Foglio
Data: 18 novembre 2006

"Budapest 1956: la rivolta diventa un thriller”, recita la manchette con cui il libro è venduto. Non gli fa un buon servizio. Prima di tutto, il libro non è affatto un giallo ambientato all’epoca della Rivoluzione Ungherese come l’indicazione farebbe pensare, ma il racconto di colui che all’epoca era questore di Budapest. E poi la lettura è sì avvincente, ma non certo perché vi si applichino i meccanismi della suspence tipici della detective o della spy story. Anzi, sappiamo già dalle prime pagine come va a finire. Il coinvolgimento, invece, viene dal pathos di una vicenda umana e ideologica straordinaria.

Operaio tornitore, militante socialdemocratico, rampollo di una umile famiglia di radici calviniste che ha abbracciato con fervore appunto calvinista la fede nella redenzione del proletariato, Sándor Kopácsi è a soli 22 anni un eroe della Resistenza contro i tedeschi. Combattente al fianco dell’Armata Rossa al momento della sua entrata in Ungheria, passato dalla socialdemocrazia al Partito comunista, il ragazzo fa una carriera sfolgorante nel nuovo regime, pur profittando degli incarichi di polizia che gli sono affidati per alleviare in qualche modo il peso dei peggiori abusi stalinisti. Responsabile appunto dell’ordine pubblico nella capitale a soli 34 anni, si trova all’improvviso di fronte all’esplodere della rabbia popolare. In principio non arretra di fronte a quello che ritiene essere il suo dovere, rischiando in prima persona la vita per cercare di riportare l’ordine. Ma presto si rende conto dell’approssimazione criminale con cui il regime si è preparato per una tale evenienza: Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello è appunto la frase con cui un tenente al comando di 25 uomini gli spiega come pensa di poter disperdere i 100.000 dimostranti che si sono raccolti per abbattere la statua di Stalin.

E i dubbi sono presto rafforzati dalla somiglianza che scorge tra i ribelli e i ricordi del suo passato: sua madre che da ragazzina sparava alle Guardie Bianche; lui quindicenne con suo padre ad azzuffarsi coi fascisti; lui e sua moglie partigiani… Insomma, quasi senza accorgersene passa dalla parte della Rivoluzione. Non fa però in tempo a guidare la resistenza popolare. Arrestato a tradimento, affronterà lo stesso processo di Nagy, Maléter e degli altri leader dell’ottobre ungherese. Ma Kadar, l’uomo che gli invasori hanno messo alla testa della normalizzazione, gli deve riconoscenza, per averlo difeso quando era in disgrazia. Per il rotto della cuffia Kopácsi evita dunque la forca, con l’amnistia del ’63 esce anche dall’ergastolo, e dopo essere tornato a fare il tornitore nel 1975 riesce infine a emigrare in Canada, dove pure lavora da operaio.

In Canada questa storia è stata appunto scritta, e pubblicata nelle due prime edizioni italiane del 1979 e 1980 col titolo In nome della classe operaia. Purtroppo, però, questa riedizione, pur esibendo come postfazione la stessa prefazione di Aldo Natoli del 1980, non aggiorna su quel che è avvenuto dopo. Lo raccontiamo dunque noi, a interesse del lettore. Pensionato a 65 anni nel 1987, nel 1989 Kopácsi è rimpatriato grazie alla transizione democratica, è stato reintegrato nella polizia e nel 1990 si è visto riconoscere il grado di Maggior Generale. E’ anche tornato nel ricostituito Partito socialdemocratico ungherese, di cui è stato presidente fino alla morte, nel 2001.