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In quel manicomio che è la vita il vero romanzo è la reticenza - il monologo di Paolo Teobaldi intrseca il S. Benedetto

Autore: Luigi Luminati
Testata: Il Resto del Carlino
Data: 13 marzo 2007

C'è un fiume carsico nella letteratura italiana, di personaggi di talento che dopo anni di traduzioni, di lezioni, di insegnamento, riemergono, mettendo insieme racconti e romanzi. Mettendo da parte dubbi e preoccupazioni, limando all'infinito ciascun romanzo, affastellando versioni fino a trovare quella definitiva, amgari la sesta. Con grande fatica, a tratti incompresa, ma sempre con l'idea che non si scrive per entrare nella classifica dei romanzi più venduti. Al contrario. E' facile incontrare Paolo Teobaldi, segaligno professore in pensione, con la sua bicicletta per il centro storico di Pesaro. E' più difficile stargli dietro, non tanto nel mulinare di gambe del ciclista, quanto nell'affrontare, in un dialogo, il continuo movimento, la necessità del guardare, dell'ossevare quello che lo circonda, del divagare. Sia la barista o la cliente del bar scelto per l'occasione, sia la citazione letteraria, che è sempre conseguenziale, naturale, mai forzata. Come il professore che spiea agli alunni e gli si adatta per evitare di gettare parole al vento.

La vita agra del professore, quella dura dell'insegnante emigrante, nel caso specifico in Sardegna, Paolo Teobaldi l'ha vissuta. E anche raccontata ne La scala di Giocca, il suo primo libro che risale al 1984 ed è introvabile. L'ultimo, invece, Il mio manicomio (edizioni e/o) è appena uscito. L'insegnante era stato preceduto dal traduttore, dal copywriter. Un uomo di lettere è stato impegnato ad istruire i futuri cuochi e barman dell'Alberghiero. Ma ciò non ha impedito la pubblicazione di Finte, Il padre dei nomi, La discarica, La badante . Con traduzioni in Francia, in Germania, in Spagna ed anche in Grecia. A conferma che Paolo Teobaldi è ormai scrittore vero, affermato. Se non ancora da classifica, comunque abbastanza conosciuto da essere invitato da Alessandro Baricco a Torino alla sua scuola Holden di scrittura. "Non è stata una grande esperienza, alla fine della lezione l'unica domanda ricorrente era "come si fa a vendere libri". A me? Potevano chiederlo al direttore-fondatore della scuola".

Perché Teobaldi è scrittore vero, capace anche di adattarsi alle regole del mercato editoriale, che vuole libri snelli e non lunghissimi, agli editor che gli propongono i titoli ("Il mio era Le delizie del Parchetto ma Il mio manicomio alla fine suona meglio"), che gli consigliano un glossario delle parole inconsuete e desuete che sparge, anche a piene mani, nel racconto-monologo sul grande ospedale psichiatrico cittadino. Ma è anche autore orgoglioso, che pretende dal suo lettore che non si fermi alla patina, all'esteriorità del romanzo: "Perché questo è un romanzo. E, come i miei precedenti, non ha niente di autobiografico". Avendo la mamma di Teobaldi lavorato veramente come infermiera al S. Benedetto, l'ipotesi di un vago collegamento autobiografico era fin troppo scontata, quasi indelicata direbbe lui: "Purtroppo mi è accaduto anche in precedenza. Quando ho scritto La badante mi hanno chiesto se ce l'avevo. Ovviamente no. Così come non sono stato lasciato da mia moglie, come accade al netturbino de La discarica. Le vicende sono inventate, romanzate. Spero plausibili, certo non autobiografiche".

Anzi, la stessa Pesaro, riconoscibilissima per i pesaresi-lettori di Teobaldi, non è mai citata direttamente. L'autore le dedica questa fatica letteraria, ma non la nomina. "Le storie accadono ovunque, non possono accadere solo a New York, anzi a Manhattan oppure al British Museum di Londra. accadono in posti minuscoli". Un po' come la microstoria di Carlo Ginsburg e, dalle nostre parti, di personaggi come Paolo Sorcinelli o anna Tonelli. quelli che raccontano il passato con il cibo, con il sesso, con i luoghi, con il ruolo delle donne. Nel contempo ci sono gli scrittori, amati anche da Teobaldi, che si legano alla loro città: Volponi e Urbino, Rigoni Stern e asiago, l'amatissimo Meneghello con Malo, Baldini e S. Arcangelo. C'è anche il poeta Gianni D'Elia, che per Teobaldi narra la nostra città meglio di chiunque altro. Raccontare topograficamente un luogo senza citarlo, ma dedicare allo stesso luogo al romanzo, è una piccola quanto importante raffinatezza. "Mi piacciono tante cose di Pesaro, soprattutto le tante vie di fuga che offre. Fisiche, nel rapporto mare-monti, ma anche culturali. Nel contempo c'è la possibilità di partecipazione, di occasioni". Di occasioni è fatta anche la narrazione, soprattutto quella di Teobaldi. E' affascinato dalla reticenza. Anzi, il suo è il romanzo della reticenza. Del non detto, del non raccontato. "In un momento in cui internet e tivù mostrano, tanto, troppo, tutto".

E' una chiave retorica che si può cogliere sin dall'inizio della storia di Tilde, rosciolina senza padre, alla quale non raccontano dove sia finito: la protagonista invidia chi ha una tomba su cui piangere. In realtà il padre è morto a Capraia, incarcerato. La bugia della prima guerra mondiale aveva retto per poco, era nata a conflitto finito da anni. "La storia comincia con un non detto e finisce con un non scritto". E' un monologo quello di Tilde. Un monologo al femminile, anche per questo difficile per l'autore quasi costretto a tenere un passo che ritiene, per lui, non naturale. Se lo regge è perché gioca pudicamente sia con i sentimenti, sia con la sensualità. Dice e non dice. Si incammina e poi si ferma. Soffre a parlar troppo il suo personaggio, soffre a partecipare troppo al dolore altrui l'autore: "Non sono riuscito ad andare oltre le due-tre cartelle dei ricoverati dello Psichiatrico. Il loro dolore mi cadeva addosso". Seppure sia laureato in Storia moderna non si sente uno storico: "Non lo sono". Eppure ha fattto ricerche approfondite, ha letto la rivista di psichiatria che l'istituto manicomiale pubblicava, ha indagato su Lombroso che dirige per un anno il S. Benedetto di Pesaro e poi va in Russia a studiare Tolstoj. Ma le parti più interessanti sono quelle della storia minuta. Della scoperta dei vandalismi al cimitero degli Ebrei: "Me lo aveva raccontato mio padre che negli anni Trenta i giovani andavano a scalfire l'ottone dalle lapidi degli ebrei". Oppure è dal suocero che coglie la definizione di "dopolavoro" per il camposanto. "Ho una memoria ferrea, non dimentico".

Se lo storico lavora con fatica, il linguista decide di non adagiarsi "sulla lingua poveradi questi giorni; ci sono parole che vengono captate come dialettali ed in realtà sono nel Tommaseo". Non si risparmia niente dal punto di vista linguistico. Mentre spiega che il numero così notevole di storie e personaggi inserito nel romanzo è voluto: " E' l'effetto Liebig, come il barone Von Liebig condensò nel dado l'estratto di carne, nel romanzo cerco di condensare storie, asciugandole".

Il rischio è quello di mettere insieme un non-romanzo o tanti micro romanzi che si intersecano con il monologo del pprotagonista narratore. Come la vicenda della "professoressa" che passa i giorni a svolgere i temi che dava ai suoi studenti, è protagonista di una rocambolesca fuga in spiaggia, ma chiude la sua vicenda terrena come "residuo manicomiale" dopo la chiusura dei manicomi ad opera della legge Basaglia ("Pazzaglia" nel libro). Fa la stessa fine di torquato tasso, che frequentò il "parchetto delle delizie" che era il S. Benedetto, molto prima di diventare un manicomio. A Teobaldi forse non piacerà, ma il legame con Pesaro appare molto profondo. E' un po' come l'essere affascinato da "un pentagono, il S. Benedetto, dentro un pentagono, le mura roveresche". Anche se il giardino proprio pentagonale non è... "Speriamo che il parcheggio sotterraneo previsto nella ristrutturazione del S. Benedetto non rovini il parchetto. Il mio manicomio". Il nostro manicomio.