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Non si può dire tutto

Autore: Domenico Starnone
Testata: l'Indice
Data: 12 giugno 2007

Paolo Teobaldi è un tipo di scrittore sempre più raro nel nostro panorama letterario. Lavora sul lessico. È un cacciatore di parole, non uno che si mette alla scrivania con il suo vocabolarietto individuale e butta giù una storia. Lo stile per lui è tutto: non gli serve per raccontare cose e persone, ma costituisce di per sé il racconto.

Questo si vede bene nell’ultimo suo libro. Si intitola Il mio manicomio, ma appunto, il manicomio non è proprio di Teobaldi, è di Tilde Manentini, la protagonista del racconto, infermiera dei matti dal 1938 al 1978. E se a Teobaldi di fatto appartiene, gli appartiene per come lui ha lavorato a costruire pezzo per pezzo il linguaggio di Tilde. Tilde ha infatti un vocabolario, una grammatica, una sintassi così coerenti con le sue origini, così ben saldati al suo percorso di vita, che nel giro di poche pagine ci vediamo davanti una persona vera e viva, di quelle che stiamo a sentire perché hanno esperienze e sentimenti distanti da noi, e ad ascoltarle si vede bene un mondo tutto loro, vale a dire detto come solo loro sanno.

Tilde Manentini è nata nel 1920, a occhio e croce. A undici anni è andata a imparare il mestiere di sarta. Poi, pur essendo ancora bambina, ha fatto la donna di servizio. Poi è stata commessa in un alimentari. Poi ha trovato lavoro in ceramica. Poi è finita operaia in una segheria, a sedici anni, e lì non ci ha rimesso la pelle solo grazie al capo operaio che invece, per proteggerla, ci ha rimesso una mano. Poi ha deciso di farsi monaca di clausura, ma la decisione è durata mezza giornata. Poi è diventata infermiera di manicomio.

Il libro è il racconto di quest’ultima esperienza lavorativa, dagli inizi alla pensione. Ma non abbiamo un sottoprodotto di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Non c’è granché sugli effetti “privati” di questo lavoro, su come esso agisce su Tilde e quindi sulla sua famiglia, la figlia Floriana il marito Delfo, ex pompiere, inserviente al manicomio, ambulante che poi si dà al catering. Non c’è granché nemmeno sul rapporto tra Tilde, infermiera dei matti, e la comunità sana. Teobaldi non è un narratore che fa romanzoni drammatizzando e psicologizzando. La sua tonalità è un’altra. Metodicamente ci dà quel poco che Tilde sa e può raccontare dall’interno, entro i limiti della sua capacità di verbalizzazione, con estro ironico.

Chi conosce il suo modo di scrivere (Scala di Giocca, Finte, La discarica, Il padre dei nomi, La badante, tutti nelle edizioni e/o) sa cosa significa questo suo lavorio calmo intorno al verbo del personaggio. Con un rigore temperato dal garbo, Teobaldi, fa storia “linguistica” di una sensibilità, di un’istituzione, di una comunità e, quasi senza darlo a vedere, della vita difficile degli italiani e dell’Italia nell’ultimo mezzo secolo. Tilde infatti porta i segni della miseria rurale (al lavoro in manicomio, si accorgerà di come nel lavare i pavimenti c’è come un trasloco del gesto di tagliare l’erba), della violenza (il padre ha ucciso un fattore per reagire a un’ingiustizia), dell’esposizione ai soprusi classici di una ragazzina povera e non protetta, finita troppo presto a lavorare. Ma, a differenza delle eroine dei romanzi, è a suo modo fortunata. Esce indenne da un gravissimo incidente sul lavoro che da rossa la fa bianca di capelli. Scampa a un pessimo matrimonio (bellissima la pagina su Liseo che si presenta per chiedere alla madre di Tilde di poter far l’amore in casa e, alla vista della miseria nerissima, fugge, non si fa più vedere). Trova un piacevole, simpatico marito. Sfugge alla vanagloria di avere una storiella con il dottor Ranieri. Può contare su una memoria di libertà autentica, gioiosa, quando il manicomio per un po’ si dissolve insieme al fascismo e niente funziona più e lei finisce con felici pochi (le monache, dieci infermiere, un dottorino, Delfo) e seicento matti in mezzo ai boschi di Badia Prataglia.

Il resto è manicomio: i turni di notte, le botte prese dai malati, le angherie, i morti lavati e vestiti, le puzze, tutte le puzze (Tilde ha l’olfatto fino e lo stomaco che si rivolta), quella orribile dell’elettroshock.

Ma anche qui la tensione drammatica è l’effetto di una tensione linguistica. Il personaggio si trattiene, si contiene per carattere, per le circostanze specifiche della sua vita e del suo lavoro. Perciò racconta, ma solo quello che può raccontare. La ricerca delle parole per dire il vero non solo di sé ma degli altri – i matti memorabili, le suore buone, i dottori, le colleghe perfide, la Cafiera sindacalista – non è facile.

C’è una frase che attraversa il lungo monologo di Tilde, il libro, forse la stessa vocazione poetica del suo autore: “Non si può dire tutto”. L’ultima a formularla, nella pagina finale, è la professoressa Magis, povero residuo manicomiale dopo la riforma Basaglia che a Tilde nei suoi effetti non piace per niente. Sì, non si può dire tutto. Una vita racconta di sé quello che può e poi – come la professoressa Magis insegna nel finale – si perde in una linea tremolante, una traccia finale di inchiostro che va a cadere, sempre, fuori della pagina.