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Tutti i segreti di un manicomio

Autore: Ermanno Paccagnini
Testata: Corriere della Sera
Data: 15 luglio 2007

Era partito con un'esperienza autobiografica Paolo Teobaldi: narrando nella Scala di Giocca (1984) l'eroicomica disavventura sarda d'un neoinsegnante pesarese. C'era tornato nel Padre dei nomi col protagonista copywriter (altra sua esperienza). Nel Mio manicomio (e/o, pagg. 190, 15.50) il legame è più tenue ma non meno intenso nei risultati, dato che nel vecchio manicomio San Benedetto di Pesaro in cui è ambientato, una cittadella sorta ironicamente sul Parchetto delle Delizie dei Della Rovere e di cui fu direttore Lombroso, per anni sua madre ha lavorato come dipendente.

Lungi da me però ogni sovrapposizione con Tilde Manentini, l'infermiera io narrante, in pensione dopo 40 anni di servizio dal 1978 di quella legge Basaglia che la vede umanamente contraria. Tanto più considerando la ferrea regola osservata in casa dalla protagonista sul segreto professionale, peraltro causa di contrasti con la figlia Floriana: dovuti sì alla caparbietà di Tilde nell'imporre le proprie volontà (a differenza del liberale marito Delfo, inserviente in manicomio e poi lavoratore in proprio); ma soprattutto al suo silenzio di fronte alle insistite curiosità della figlia.

Ed è proprio su tale equilibrio di «dire non dicendo» che si snoda il lineare racconto memoriale di Tilde. Un narrare dall'interno: una visita guidata condotta con estrema delicatezza, ma non senza estrosità ed umorismo (il primo maschio nudo e morto da lavare). Con una mai dismessa pietas, si tratti di malati Tranquilli (bella la figura della professoressa) o degli Agitati che ti procurano occhi neri. Con grande affetto per quelle suore che non conoscono turni, tra cui si segnalano per raffigurazione la bella Esterina, l'impareggiabile cuoca Ignazia dai baffoni da gendarme, la misteriosa superiora. Ma pure con scatti umoristici e toni persino duri (la sindacalista sfaticata) e addirittura sprezzanti (i medici che del malato fanno cavie). E, ancora: una storia di amori (il marito Delfo) ma pure di dolori: Floriana (non mi convince il sogno di Tilde su lei di pag. 133); il fidanzato che fugge scoprendo la povertà di lei; il silenzio sul padre accusato di omicidio e morto in carcere.

Toni che inseriscono a ragione Il mio manicomio nel percorso che da Tobino giunge all'Affinati di Bandiera bianca: cui Teobaldi si accosta anche per quel suo narrare anomalo che lo porta a guardare all'oggi nell'ottica dei rifiuti (La discarica); a narrare del legame affettivo tra paziente e badante (La badante); a sorridere su come esorcizzare la morte dei propri cari (Finte. Tredici modi per sopravvivere ai morti). Narrazioni che s'affidano spesso a una memorialità che nasce a ridosso della perdita d'una persona cara e che, come accade con la sviluppata sensibilità di Tilde, nel ripercorrersi (con qualche lieve ripetizione), rivive dalla prospettiva interna la piccola e grande Storia. Ed è la povertà della Tilde orfana, con madre «stramba», che ne fa dei reietti per i benpensanti; i suoi svariati lavori e l'incidente in segheria che dalla paura le sbianca per sempre i capelli; il fascismo e l'occupazione nazista con conseguente sfollamento dei seicento ricoverati (densa pagina narrativa); il boom economico. Un ripercorrersi con quel «tanto» poco che può raccontare di quel manicomio, che pure ti fa attraversare nelle componenti umane, ambientali e strutturali. E con quella estrosa lingua prescolare di Tilde, con glossario tutto suo, su cui Teobaldi lavora di cesello, e che costituisce lo strumento più proprio ed efficace per un viaggio soprattutto tra tante sensibilità e altrettante insensibilità.