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Amara Lakhous: “Penso che uno scrittore debba avere una visione sulla società e sulla realtà”

Autore: Paola De Donato
Testata: Omero
Data: 20 novembre 2014

“Italiano non italianissimo”; così si definisce Amara Lakhous, scrittore nato ad Algeri che, trasferitosi in Italia nel 1995, ha indagato la realtà del nostro paese con intelligenza e sguardo obiettivo. Nei suoi testi,Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, Divorzio all’islamica a viale Marconi, Contesa per un maialino italianissimo a San Salvarioe La zingarata della verginella di via Ormea (in lingua italiana tutti editi da e/o), recupera la memoria italiana, scavando nella storia per dare la giusta importanza a tematiche oggi centrali e spesso non adeguatamente trattate, come l’immigrazione nel territorio italiano e tutto ciò che vi ruota attorno, con delicatezza e maestria, mantenendo accesa l’attenzione del lettore grazie alla dettagliata descrizione dei luoghi e della mentalità della gente, e all’utilizzo del “giallo” come sfondo della narrazione.

In riferimento ad autori originari di altri paesi che scrivono in lingua italiana, come Igiaba Scego o Gezim Hajdari, si sono date varie definizioni, tra cui quelle di “scrittori di seconda generazione” o “scrittori postcoloniali”. Lei si sente rappresentato da queste definizioni?

Innanzitutto vorrei fare un’osservazione generale sulla definizione: la definizione è sempre una forzatura, si tende a “mettere dentro” qualcuno e a togliere qualcun altro in conformità a criteri a volte eccessivi. Personalmente, appartenendo alla prima generazione migrante, non mi riconosco in queste definizioni, che vedo più adatte ad autori come Igiaba Scego, nata a Roma da genitori di origini somale e perciò “di seconda generazione” ma anche “autrice postcoloniale”, non solo perché la Somalia è stata colonia italiana, ma anche per l’interesse che Igiaba nutre nei confronti delle tematiche riguardanti il colonialismo. Ora, la mia domanda è questa: perché io o altri autori, che io preferisco chiamare “nuovi scrittori italiani non italianissimi”, non possiamo stare tout court nella “Letteratura Italiana”? Questa domanda gli “scrittori italiani non italianissimi” se la pongono spesso, anche attraverso numerosi dibattiti. Secondo me vi sono due elementi fondamentali per definire se un testo può “appartenere alla letteratura italiana”, che sono anche due criteri essenziali per la definizione del testo letterario; il primo è il linguaggio, poiché un testo letterario è lavorato sulla base dello stile, che è poi il linguaggio, dobbiamo vedere se all’interno di queste opere è stato fatto anche un lavoro sul linguaggio e sulla lingua italiana. Il secondo elemento è “la visione”: nel testo letterario l’autore racconta la realtà e direi, ne anticipa anche il futuro, quali strumenti usa per raccontare questa realtà? L’elemento della “visione” manca spesso nei testi di questi “scrittori italiani non italianissimi” che non riescono a raccontare la realtà italiana e ad andare oltre la propria storia personale e per questo risulta difficile “inserirli nella Letteratura Italiana”, saranno piuttosto studiati in antropologia o in psicologia. La “mancanza di visione” per me è un grande problema perché penso che uno scrittore debba avere “una visione” sulla società e sulla realtà. A dir la verità nei miei romanzi vi è la “visione” come vi è un lavoro sui dialetti e sul linguaggio; in Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio ho lavorato sul romanesco e soprattutto sul napoletano, inoltre sono uno scrittore bilingue, scrivo in italiano e in arabo, cerco di “arabizzare l’italiano” e “italianizzare l’arabo”, per esempio di Divorzio all’islamica a viale Marconi sono uscite in contemporanea le versioni in lingua italiana e in lingua araba. Per quanto riguarda “la visione”, credo che nei miei romanzi sia presente veramente uno sguardo nuovo sulla realtà italiana e penso che il successo di Scontro di civiltà si debba proprio a questa voglia di raccontare la storia degli altri, la storia di Roma e di Piazza Vittorio, con uno sguardo sulla realtà e sulla società. In Divorzio all’islamica mi sono soffermato sul rapporto tra il mondo arabo e la Sicilia, mentre negli ultimi romanzi, ambientati a Torino, c’è un lavoro importantissimo sulla memoria italiana. Mi sono trasferito a Torino per parlare della migrazione degli italiani del sud durante lo scorso secolo e della discriminazione da loro subita, ho continuato infine a lavorare sulla memoria italiana nel mio ultimo romanzo La zingarata della verginella di via Ormea, in cui ho trattato della migrazione in Piemonte in epoca medievale dei Rom che, nonostante siano passati secoli, sono ancora considerati “stranieri” e “nemici”. Avendo fatto un grande lavoro sulla memoria italiana e sul linguaggio mi trovo, perciò, a pieno titolo nella Letteratura Italiana.

Nei suoi testi sono spesso citati film e registi italiani. Che importanza hanno queste citazioni?

Il cinema ha una fortissima influenza nei miei romanzi, senza di esso non si possono comprendere veramente appieno. Cerco di applicare le tecniche del cinema alla letteratura, scegliendo i miei personaggi come un regista sceglie gli attori per i suoi film; ricordo, ad esempio, il documentario Alla ricerca di Tadzio di Luchino Visconti sull’incredibile ricerca in Svezia e in Norvegia, fra migliaia di ragazzi, di un attore che potesse interpretare il personaggio di Tadzio in Morte a Venezia; io sento di fare la stessa cosa e per questo viaggio, cambio città alla ricerca di personaggi. Un altro aspetto del cinema che è fortissimo nei miei romanzi è la “location”; prima di scegliere il personaggio scelgo il posto; i “luoghi” dei miei romanzi, piazza Vittorio, viale Marconi, San Salvario, via Ormea sono tutti posti dove fra l’altro ho anche vissuto. Ci sono, inoltre, dei registi per me importanti come Pietro Germi, il mio romanzo Divorzio all’islamica a viale Marconi lo richiama non solo per il famoso filmDivorzio all’italiana ma anche Sedotta e abbandonata che io considero un capolavoro per le tematiche sulla questione femminile.

Si è spesso detto che Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio richiami fortementeQuer Pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda. Cosa ne pensa al riguardo?

Il paragone con Gadda fu un onore e mi riempì di gioia, soprattutto perché quando scrissi Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio non avevo ancora compiuto dieci anni di permanenza in Italia, quindi ero veramente “un bambino”. Nel 2006, partecipando a un programma su Radio 3, Damasco, in cui mi veniva chiesto quali fossero i cinque libri che avevano segnato maggiormente il mio percorso, tra quelli scelti citai proprio Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana. A mio parere vi sono tre punti che mi legano a Gadda; il primo è la scelta nelPasticciaccio di narrare la “vita popolare”, il quotidiano, l’attaccamento al quartiere, Gadda lo ha fatto con Via Merulana e io con Piazza Vittorio. Il secondo punto è “il giallo”, io sono molto interessato all’uso di questo espediente nelle storie perché coinvolge maggiormente il lettore, non si tratta però, nel mio caso e in quello di Gadda, di un “giallo di divertimento”, la ricerca dell’assassino non è veramente importante, ciò che desidero è raccontare le “dinamiche sociali”, la “responsabilità collettiva”: l’omicida non è una persona ma è la società stessa. Il terzo punto che mi lega a Gadda è, ovviamente, “il linguaggio”; Gadda ha lavorato sul romanesco facendosi aiutare da un poeta poiché, giunto da Milano a Roma per lavorare alla Rai, non lo parlava, e anch’io per il napoletano e il siciliano mi sono fatto aiutare da persone che conoscono questi dialetti.

In Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittoriolo straniero Amedeo, a causa dei pregiudizi e dell’ostilità della gente, è considerato colpevole di omicidio. Cosa c’è all’origine di quest’ostilità e dei pregiudizi?

Il punto centrale è il “sospetto”. Quando sono arrivato in Italia ho notato che si parlava di immigrazione solo nella cronaca nera e quindi in negativo, per questo negli ultimi romanzi ho creato come personaggio principale un giornalista di cronaca nera locale, Enzo Laganà. Il mio ultimo romanzo La zingarata della verginella di Via Ormeaparte da un caso di cronaca nera realmente avvenuto qualche anno fa a Torino, dove una ragazzina di quindici anni aveva, ingiustamente, accusato due rom di stupro. Ho cercato di riflettere su questo “sospetto”, su questa “paura dell’altro”, cercando di capire l’origine della paura che gli italiani hanno nei confronti degli immigrati; negli ultimi romanzi attribuisco l’origine di questa paura al fatto che essi non hanno mai elaborato la loro migrazione interna, quella meridionale, e non hanno elaborato l’emigrazione italiana all’estero. In Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario faccio arrivare un ispettore rumeno d’origine italiana, in quanto alla fine dell’ottocento dal nord d’Italia sono emigrati in migliaia in Romania a lavorare, a collaborare con la polizia italiana, questi argomenti sono però tabù nella letteratura italiana; io come “scrittore italiano non italianissimo” forse non ho questo blocco.

 

http://www.omero.it/omero-magazine/interviste/amara-lakhous-penso-che-uno-scrittore-debba-avere-una-visione-sulla-societa-e-sulla-realta/