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Cara Elena Ferrante che pacchia non esistere

Autore: Diego De Silva
Testata: L'Espresso
Data: 9 marzo 2015

CARA ELENA FERRANTE (femmina o maschio, singolare o plurale che tu sia: come certo saprai, una delle teorie che circolano sul tuo conto è che tu possa anche essere un collettivo di scrittori che di volta in volta si alternano o si dividono il lavoro), siccome in questo periodo tutti ti scrivono per candidarti ai premi, difenderti o attaccarti (ma con moderazione, perché tu, diciamocelo, un po’ di soggezione la ispiri), ed è singolare questa confidenza reverenziale (bell’ossimoro, no?) che ispiri, ho pensato di scriverti anch’io, tanto per capire cosa si prova a parlare con qualcuno/a (o più di uno/a) che fa il tuo stesso mestiere e ostinatamente nasconde la sua identità (da vecchio lettore dell’Uomo Ragno, ho una passione smisurata per le identità segrete).
Il buffo è che forse ci conosciamo.
Anzi: il mistero buffo è che se dietro il tuo nome si nasconde davvero chi si dice che tu sia, se ora mi stai leggendo ti farai anche una risatina gustosa dietro i baffi (Oops!).
Quello che voglio dirti prima d’ogni altra cosa, Elena Ferrante, è che mi piace il tuo stile. Sei così distaccata, così ideologica nello snobbare il mondo letterario e soprattutto editoriale. Amo il tuo esilio volontario. La caustica ragionevolezza con cui rispondi a chi ti chiama in causa, rivendicando il diritto di schifare l’esposizione mediatica. La disinvoltura (genere: “Massì, tanto che mi frega”) con cui ti lasci candidare allo Strega. Sei così... così diversamente simpatica.
Non so a te,maameitipitroppo simpatici non convincono. Mi danno l’idea di avere qualcosa da nascondere, certo molto più di te, che ti nascondi per principio e non per ingannare il prossimo. L’antipatia, invece, somministrata indosi tollerabili, fa bene all’ammirazione. Se ci pensi, chi ti piace ti irrita sempre un po’.
Cosa mi irrita di te? Il fatto che hai sempre ragione. Che sei al di sopra di ogni sospetto. Anche chi sospetta di te, chi dice che sei un fenomeno studiato a tavolino (ecco perché i tavolini vendono tanto), deve arrendersi davanti al fatto incontestabile che tu non appari mai in nessuna vetrina. Per cui, quando prendi la parola, metti tutti a tacere: è ovvio. Chi vuoi che non sia d’accordo con te. Chi di noi non vorrebbe essere dispensato dalle scocciature che il nostro mestiere comporta. Dalle presentazioni (specie quelle degli altri). Dalle cene dopo le presentazioni con gente che non conosci. Dagli incontri con le scuole. Dalle interviste. Dai festival. Dagli inviti. Dalla gente che rosica.
La verità è che siamo tutti d’accordo con te, ma a chiacchiere. Perché poi ci piace presentare i libri, se la gente viene a vederci. E firmare le copie alla fine. E poi chiedere distrattamente al libraio quante ne ha, ehm, vendute. E andare in tv. E alle feste editoriali fighe. Ed essere riconosciuti per strada. E andare in trasferta all’estero quando ci traducono. E ci offendiamo se non ci invitano ai festival. Se i giornali non ci intervistano. E anche se non ci candidano allo Strega. Tu no. A te non frega davvero niente di tutto questo. Te ne stai per i fatti tuoi, scrivi i tuoi libri, li consegni al tuo editore che li pubblica, e fine della storia. Il nostro lavoro, come tu affermi, potrebbe tranquillamente limitarsi a questo. E hai ragione, come si fa a darti torto. Quando, rispondendo a Saviano che su “Repubblica” promuove il tuo romanzo per lo Strega, dici che non hai niente in contrario perché il libro, una volta che uno lo compra, ha diritto di farci quello che gli pare, anche di usarlo come sostegno di un tavolo zoppo (ehi, non sarebbe una bella trovata per un ristorante usare i libri per pareggiare i piedi dei tavoli storti?), hai mille volte ragione.
Senti questa: una volta (se non ricordo male, a Bologna), dopo la presentazione di un mio libro, un tipo è venuto a chiedermi di firmarglielo, e una volta che gliel’ho firmato mi ha detto che secondo lui era un libro di merda.
Io (la verità) ci sono rimasto un po’ così, perché per quanto un simile episodio faccia ridere (e io ci schiatto dal ridere, su questo episodio), quando lo psicopatico se ne va col tuo libro che gli hai pure firmato, tu pensi: “Ma tu vedi un poco la Madonna”.
Però, in fondo, se ci pensi, è giusto che sia (anche) così. Perché il lettore ha diritto, una volta che il libro è suo, di farne quello che gli pare. E quindi hai ragione di nuovo: una volta che il libro esce, noi, in un certo senso, lo perdiamo. Andare in giro a presentarlo, dare interviste e così via, non lo rende migliore o peggiore, né (meno male) indirizza la lettura che il lettore ne farà.
In fondo, il tuo caso dimostra che l’esposizione dello scrittore non è affatto necessaria al successo del libro che ha scritto. Di più: fa saltare quella categoria oggi molto trendy che va sotto la formula del “metterci la faccia”. Dimostra che il libro può vivere di vita propria; e se non ci riesce, l’accanimento terapeutico non è una buona strada. Quindi, niente di male se Roberto ti candida allo Strega. Niente di male se, rispondendo a Roberto, tu dici, in buona sostanza: “Okay, se vuoi portare il mio libro allo Strega fallo pure, tanto porti lui, mica me; io non c’entro, non ci vengo neanche, e puoi presentarlo al premio con la stessa libertà con cui potresti usarlo come zeppa del tuo tavolo” (anche se scusa eh non è carino dire a uno scrittore che si sta offrendo di portarti al più famoso premio italiano che per te, tra l’essere presentata allo Strega o essere usata come sostegno di un tavolo scassato non c’è nessuna differenza).
Il problema è che anche quando sbagli gli accostamenti, o dici che lo Strega è un premio manovrato, ma se il tuo libro lo vince smette di esserlo, mentre se non entra neanche in cinquina continuerà ad essere un premio irriformabile, si finisce sempre per parlare di te, e tutto questo gran parlare di te accresce le tue quotazioni in maniera esponenziale.
Tu, Elena o come ti chiami veramente, godi di un inedito privilegio: qualunque cosa tu dica, potrà essere usata in favore di te. Non so se spariglierai lo Strega (come pensa Saviano), ma hai sparigliato la più celebre delle formule accusatorie. Hai ragione a prescindere. Sei così inattaccabile che ogni cosa che dici o fai diventa un tuo punto di forza. Elena Ferrante, ovvero “Every little thing she does is magic”, come dal titolo di una bellissima canzone che certamente conosci. Ma a te, dimmi, una così non ti sarebbe almeno un po’ antipatica?
Sai un’altra cosa che di te trovo geniale? L’aver guadagnato tanti (meritatissimi) soldi rimanendo all’oscuro di tutti. La regola del denaro (anche a questa fai eccezione, santo cielo) è che chi ce l’ha tende ad esibirlo, o quantomeno a non nasconderlo (tranne che al fisco, se tende a delinquere). Tu no. Nessuno sa di te, perciò nessuno può indicarti per strada e dire: “Ehi, quella è la Ferrante, chissà quanti soldi s’è fatta coi suoi libri, beata lei”. Fantastico. In un certo senso, hai evaso. Non il fisco, per carità, ma la notorietà economica, e in questo modo ti sei messa al riparo dell’invidia e dai fastidi collaterali che l’aver soldi comporta.
Per concludere: hai capito tutto. Già t’immagino, se vincerai lo Strega, uscire di casa il giorno dopo, fermarti all’edicola a leggere i titoli di tutti i giornali esposti che parlano di te, quindi dirigerti verso il supermercato dove fai solitamente la spesa, incrociare la gente che passa e pensare: “Ehi, ho vinto lo Strega e nessuno lo sa”.
Come si fa a non detestarti? Ti adoro. Tuo, Diego De Silva