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L'antidoto a Houellebecq? Et voilà

Autore: Daria Galateria
Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 26 agosto 2016

PARIGI. Bussola, l’ultimo romanzo di Mathias Enard, è un monumento di sapienza. E pure di umorismo e di grottesco: ma domina la nostalgia del sogno orientalista; e anche per questo ha vinto il premio Goncourt 2015. Un antidoto a Houellebecq, che in Sottomissione prefigurava per il 2022 in Francia la vittoria di un partito islamista moderato. Sono stato troppo buono, lamenta oggi Houellebecq; il suo romanzo, uscito il giorno dell’attentato a Charlie Hebdo, sembra ormai superato dalla storia. Il coraggioso scrittore algerino Boualem Sansal, nel suo 2084 pure in predicato per il Goncourt, prefigura ad esempio l’Abistan, un nuovo mondo dominato da islamisti fanatici.

Mathias Enard invece, nel suo imponente romanzo (424 pagine squisitamente tradotte da Yasmina Mélaouah per e/o), ritesse tutti i nostri legami con l’Oriente: che è, avvisa, un mito dell’Occidente. In una sola notte d’insonnia, il giovane orientalista e musicologo Franz Ritter, a Vienna, rievoca i suoi incontri con la luminosa collega Sarah, tra Istanbul, Damasco e Teheran, nelle tende di beduini a Palmira e nelle università; e intanto nel suo monologo bulimico – aperto a improvvise pagine di poesia, sull’oppio, sull’alba nel deserto, sulle bussole di vecchie sveglie-moschea per la direzione della preghiera – scorre tutto l’universo dei nostri intrecci con l’Oriente (i Crociati, i primi orientalisti): così colto e sempre sorprendente da lasciare senza fiato – solo nell’ultima pagina sapremo se Franz può guarire dalla malattia che lo affligge, e che è forse solo paura dei sentimenti.

Enard è professore di arabo, parla sei lingue, e vive con la famiglia (che cerca di trattenerlo dal ritornare in Oriente) a Barcellona, dove ha aperto un ristorante libanese – oltre ai suoi dieci romanzi, ha curato un volume su La cucina degli scrittori.

In che momento ha cominciato a viaggiare in Medioriente? E con quali emozioni?

«È stato nel 1991, alla fine della guerra in Libano. Ero andato a Beirut per realizzare un reportage (all’epoca pensavo di diventare giornalista) sulla Croce Rossa libanese. Un mese intero nelle ambulanze. Ho imparato a contare in arabo dalle loro radio: “102, 102 agli operatori, Parlate, 102”. Al ritorno, mi sono iscritto ai corsi di arabo e persiano all’Istituto di Lingue Orientali di Parigi. Molto presto, sono tornato in Medioriente, in Iran, Egitto e Siria. Ci ho passato quasi dieci anni. Dieci anni di formazione, di trasformazione. Poco a poco, il sogno esotico che tutti abbiamo quando sbarchiamo in terra straniera lascia spazio alla realtà. Si scoprono le letterature, le musiche, l’architettura, la gastronomia, le religioni, certo, ma anche le difficoltà dei trasporti, l’inquinamento, gli effetti della dittatura, la povertà – ci si rende conto della grande diversità di quello che il sogno esotico ci faceva pensare come un tutto uniforme».

Che memorie ha della Siria?

«Ho abitato in Siria dal 1995 al 1999, prima a Damasco poi a Soueida, nel sud del Paese. Ci sono tornato costantemente fino al 2011. È uno dei luoghi al mondo in cui mi piacerebbe vivere, anche se oggi è difficile solo immaginarlo. In Bussola, ho cercato di trasporre i miei ricordi di Aleppo, Palmira – e della dittatura degli anni 90».

Il protagonista del suo romanzo pensa che l’Orientalismo sia un sogno degli Occidentali: lo crede anche lei?

«L’orientalismo è una questione complessa, diversa secondo il luogo, le epoche e le discipline. Ha origine nella spedizione in Egitto di Bonaparte e nella guerra d’indipendenza della Grecia. Questi due avvenimenti impregneranno l’immaginario di intere generazioni, e daranno un impulso potente ai saperi sull’Oriente. Questo interesse per i Paesi del sud e dell’est del Mediterraneo è, fin dall’inizio, concomitante alle avanzate della dominazione europea – militare, economica – su quei territori. Per esempio, sono la spedizione di Algeri e la conquista del Maghreb da parte della Francia che aprono la via ai pittori, ai viaggiatori, ai musicisti che li percorreranno. Le scienze sociali moderne si inventano per così dire in Algeria: gli etnologi forniscono i dati che consentiranno ai militari di sottomettere le tribù berbere. Fino alla Prima guerra mondiale, gli scienziati orientalisti sono stati in parte gli alleati dei politici e dei militari. Ma l’Orientalismo è stato anche occasione di scambi per l’arte. Spesso i linguisti sono stati traghettatori di opere letterarie che influenzeranno profondamente artisti europei che non hanno mai messo piede in Oriente. Così le poesie del Divano occidentale-orientale di Goethe sono ispirate dalla traduzione di un orientalista viennese, Hammer-Purgstall, del Divan dell’immenso poeta persiano del XIV secolo Hafez. È la rivoluzione romantica del pittore Delacroix, i fantasmi degli harem di Ingres, le musiche di Félicien David che utilizzano i suoni della gamma araba...Il sogno trasforma la realtà culturale europea. In un certo senso è l’inizio di quell’accelerazione avviata dalla globalizzazione».

Ha nominato Hammer-Purgstall, l’orientalista austriaco evocato spesso nel romanzo, tra l’altro per aver influenzato Balzac (cui si dice che lei assomigli...)

«Hammer-Purgstall era di formazione diplomatico e interprete. Passa anni a Istanbul all’Ambasciata austriaca. Conosce il turco, il persiano e l’arabo. La sua opera è immensa: gli si deve una gigantesca storia dell’Impero Ottomano. Incontrò Balzac a Vienna, e gli offrì il testo arabo che lo scrittore inserì (per la prima volta in Francia) nel romanzo La pelle di zigrino».

Tra le migliaia di uomini e di donne innamorate dell’Oriente, ed evocati nel romanzo, quali hanno avuto più importanza nella sua formazione?

«Per me – per la mia formazione – sono stati piuttosto gli orientalisti scienziati: storici, linguisti. E tra tutti due italiani, Gianroberto Scarcia e Riccardo Zipoli – e al di là di queste grandi figure, l’immenso Bausani, uno degli ultimi orientalisti onniscienti. Ma ci sono stati anche viaggiatori e sapienti che mi hanno profondamente influenzato: per esempio Louis Massignon e Isabelle Eberhardt».

La soluzione di convivenza con il Medioriente, proposta da Franz Ritter nel romanzo, è il cosmopolitismo. È ancora possibile oggi?

«Il cosmopolitismo è innanzitutto un punto di vista. Una visione globale del mondo, multilaterale. In questo senso, non è una possibilità, è una necessità. Come notava giustamente il pensatore tedesco Ulrich Beck, com’è possibile immaginare che tutto quello che ci circonda possa essere cosmopolita, ma che il nostro pensiero possa non esserlo? Abbiamo le radici in un luogo, la vita altrove; sui nostri schermi, immagini di paesi lontani; ceniamo un giorno thai e libanese un altro. Il cosmopolitismo è la nostra realtà quotidiana. Perché non dovremmo essere in grado di pensare questa realtà politicamente e filosoficamente?».

Si ha l’impressione che Franz Ritter, che guarda il presente con la sua scienza millenaria, consideri la crisi attuale del rapporto con l’Oriente come una fase storica destinata a essere prima o poi superata. Lo pensa anche lei?

«Certo. Che si tratti della guerra in Siria o dell’islamofobia europea, sono momenti passeggeri. Spero che il Medioriente ritrovi presto la pace, che l’Europa continui ad amare le differenze e che l‘Islam risolva il problema (sempre più grave) del salafismo. La speranza è una visione. Ma senza speranza, non si fa nulla».

Ha seguito la vicenda di Regeni, il nostro ricercatore torturato e ucciso in Egitto?

«È atroce. L’Egitto di Al-Sissi è diventato una dittatura ancora più tossica di quella di Mubarak. Torture, arresti arbitrari, rapimenti sono quotidiani. I diversi servizi di sicurezza sono macchine di morte indipendenti tra loro e cieche. L’Europa si adatta a questa dittatura come si è adattata negli anni a quelle di Ben Ali, di Mubarak o di Bashar al-Assad. Visioni tattiche a corto termine sembrano interessare i nostri politici più dei valori che dovrebbero difendere – e esseri umani muoiono tutti i giorni. La loro responsabilità è enorme».