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«Il Nobel a me e Dylan? Lo spazio della letteratura ormai si è allargato...»

Autore: Stefania Vitulli
Testata: Il Giornale
Data: 28 aprile 2017

La definizione «Opera polifonica» usata dall'Accademia del Nobel per i libri di Svetlana Aleksievič dovrebbe entrare nel gergo usato per i nuovi generi letterari. Perché molti, nel 2015, hanno pensato che per la prima volta il premio andasse a un giornalista. È accaduto perché i suoi libri sono costruiti grazie a interviste raccolte in anni di lavoro. Pagine che rievocano con parole semplici le sofferenze monunentali della guerra in Afghanistan in Ragazzi di zinco e la tragedia nucleare dell'Ucraina in Preghiera per Cernobyl (entrambi e/o) o - nella trilogia pubblicata da Bompiani - la Vita in Russia dopo il crollo del comunismo in Tempo di seconda mano, l'epopea delle donne sovietiche durante la seconda guerra mondiale in La guerra non ha un volto di donna e, ne Gli ultimi testimoni, i ricordi innocenti dei più piccoli legati all'invasione della Bielorussia da parte delle truppe tedesche nell'estate del 1941. Dopo averla incontrata, però (dopo una lectio alla Bocconi a Milano, sarà stasera a Torino, aula Magna della Cavallerizza Reale, per anticipare il Salone del Libro), e aver indagato i suoi processi creativi, ne esce un percorso diverso, in cui, secondo la stessa Aleksievič, il giornalismo ricoprirebbe un ruolo marginale.

Lei si sente una giornalista?

«Ho lavorato sette anni come giornalista. ma è un ruolo troppo stretto per me. Lo considero molto superficiale, mentre io voglio andare nel profondo. Quando raccolgo le mie interviste, non cerco dati e fatti sulla persona. Se il tema è la guerra, parlo con le persone di tutto: la vita, l'amore, i figli. la vecchiaia. E la guerra è solo parte di quelle cose».

Cerca dunque la verità?

«La verità attrae, invita, ma è irraggiungibile. Dobbiamo essere consapevoli che, nel raccontare, l'uomo crea. Per raggiungere una versione della verità, bisogna confrontarne molte. Di ritorno dalla guerra, l'uomo racconta una verità. Trascorsi vent'anni, un'altra. La verità è un fantasma che inseguiamo senza sosta».

Dove trova le sue storie?

«Se si tratta di guerra, cerco le persone che hanno combattuto. Se il tema è Chernobyl, chi è stato toccato dalla tragedia. Non è difficile trovare le persone. Difficile è trovare persone che non abbiamo un modo di pensare dozzinale. Che mi consegnino materiale emblematico. Siamo immersi nei gigabyte e spostiamo di continuo informazioni banali dal punto di vista emotivo. Per i miei libri cerco persone che sappiano compiere un atto di introspezione e allo stesso tempo rimanere saldamente attaccati al tempo storico, reale».

Il rischio della banalità è la sua ossessione?

«È un rischio che comporta che nulla abbia senso, tutto sia noto e diventi spazio vuoto. Siamo banali quando viviamo senza compiere alcun lavoro esistenziale. Mentre abbiamo bisogno di mistero».

La letteratura è mistero?

«È definizione. Creazione di innumerevoli elementi di connessione tra i dettagli. La letteratura inizia là dove la quotidianità diventa esistenza. Converso con una donna che ha avuto una bimba con seri handicap fin dalla nascita, tra cui il fatto che era senza dita. La bimba poi in seguito a questi handicap, è morta. E la mamma, nel parlarmene, mi dice: "Se solo avesse avuto almeno le dita". Ecco come un fatto si trasforma in letteratura. Un altro esempio: una donna che durante la guerra era autista, detestava i tedeschi ed era incapace di pietà per loro. Ricorda Stalingrado e il numero incredibile di morti tedeschi. E sottolinea questo momento: "i morti erano così tanti, che i cavalli non riuscivano ad avanzare, perché il cavallo non calpesta i cadaveri". E riflette: "Dio mio, il cavallo è più umano di quanto lo sia io". Chi sostiene che faccio del giornalismo esprime un'idea molto conservatrice di che cosa sia la mia opera. Il giornalismo ha a che fare solo con la constatazione del fatto, io faccio letteratura».

E l'Accademia di Svezia se ne è accorta.

«Le forme di letteratura cambiano. Perché il Nobel a me o a Bob Dylan? L'Accademia ha percepito l'estendersi dello spazio letterario».

Su che cosa sta lavorando adesso?

«Ho due progetti. Uno sull'amore e uno sulla vecchiaia. I cinque libri che ho scritto sinora sono dedicati all'homo sovieticus, all'uomo dell'utopia. Con questi nuovi progetti abbandono l'idea che l'uomo nasca per morire per la patria e abbraccio quella che nasca per qualche altro scopo».

Un libro sull'amore: un vasto programma.

«Non è un semplice racconto di storie d'amore, ma il tentativo di capire perché viviamo. Dentro ci saranno uomini e donne o maschi e maschi o donne e donne o transgender. Il progetto sulla vecchiaia è anche più interessante: uno sguardo sulla vita, ma partendo dalla fine. L'uomo che è un passo dallo scomparire nel buio, come percepisce la morte, come si accomiata dalla vita?».

Come si sviluppa un progetto per un libro?

«È come m una sinfonia: prima viene l'idea, poi le linee principali, poi, dopo magari cinque o sei anni, mi rendo conto di che libro sarà. Devo essere un po' "presa", innamorata delle persone che incontro. Perché mi piacciono molto. O perché mi fanno rivoltare lo stomaco. Se la persona ti suscita repulsione sei più attento: c'è una zona oscura nell'arte dove, se l'uomo è interessante, poco importa che sia vittima o carnefice».

Come crea un rapporto di fiducia con gli intervistati?

«Anche tu devi essere interessante per loro, perché ogni persona ha segreti che ha bisogno di raccontare. Devo creare una conversazione tra due esseri umani che vivono lo stesso tempo».

Le sue fonti di ispirazione?

«Le stesse di tutti: la vita, i figli, l'amore. E la consapevolezza che questa è la tua professione e vuoi farla in modo onesto. Ho incontrato oncologi pediatrici e ho chiesto loro come possono ogni giorno avere a che fare con una materia così tremenda. Mi hanno risposto che dopo un po' è come se la loro anima fosse non dico impietrita, ma indifferente. Questo è ciò di cui ho più paura: diventare insensibile. Nel mio lavoro è molto pericoloso. È importante che lo spirito non si stanchi».