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Leggi qui il PROLOGO di La terra della mia anima di Massimo Carlotto

Beniamino arrivò, come sempre, senza avvertire. Stavo lavorando sotto il loggiato quando lo vidi scendere dal taxi. Dalla grandezza della valigia capii che si sarebbe fermato abbastanza a lungo. Si tolse la giacca e andò subito nel capanno degli attrezzi. Tornò con una cesoia e un segaccio.
<<Bisogna potare la solandra, altrimenti non reggerà l’estate. E poi c’è uno dei lecci che sta crescendo tutto storto. >>.
Continuai a lavorare. Ogni tanto alzavo la testa dalla tastiera e lo vedevo usare quelle grosse forbici come se fosse un barbiere pazzo, e intanto parlava con le piante, commentava il tempo o raccontava del suo orto.
Dopo un po’ venne a sedersi al tavolo. Accese una sigaretta e la fumò guardando il mare.
<<Ho il cancro>> disse.
<<Lo so>>.
<<Tre, al fegato>>.
<<Fai sempre le cose in grande>>.
Tornò a osservare il mare. Il traghetto proveniente da Civitavecchia procedeva pigramente verso il porto di Cagliari.
Da quando era arrivato non avevo fatto altro che sbirciarlo, cercando segni evidenti della malattia. Era solo un po’ più magro. Il collo ballava leggermente nel colletto della camicia e la pelle del volto era appena più scura intorno al naso e sulla fronte. Se non avessi saputo non avrei mai immaginato che la grande bestia lo aveva azzannato al fegato. Avrei pensato alla stanchezza e all’età che avanzava. D’altronde aveva 65 anni, anche se pensava di averne 20 di meno. L’ultima volta che l’avevo visto era stato qualche mese prima, in un locale notturno da qualche parte nel nordest. Stavo tornando da uno spettacolo insieme a Maurizio Camardi e avevamo fatto una piccola deviazione per andare a trovarlo.
Mentre stavamo bevendo al bar del locale, aveva redarguito un sinto che aveva mancato di rispetto a un’entraîneuse. Il nomade lo aveva aspettato nel parcheggio e gli aveva piantato nel basso ventre la canna di una calibro .22, pretendendo delle scuse.
<<Spara>> aveva detto Beniamino in tono seccato. <<Spara. O ti strappo quella pistolina e ti faccio male>>.
Il sinto era rimasto interdetto. Le cose non stavano affatto andando come aveva immaginato. Aveva abbassato l’arma e farfugliato qualche spiegazione, cercando di salvare la faccia. Beniamino lo aveva costretto a scusarsi, poi lo aveva invitato a bere. Maurizio e io non li avevamo seguiti. Non avevamo nessuna voglia di trascorrere del tempo insieme a uno che va in giro a divertirsi con una pistola infilata nei pantaloni.
<<Com’è finita con il sinto?>> domandai.
Alzò le spalle come per scacciare un pensiero senza importanza. <<L’ho steso a forza di vodka. Una piccola e insignificante testa di cazzo>>.
Dalla valigia prese una manciata di cassette e le appoggiò sul tavolo. <<Voglio raccontarti un po’ di storie. Magari ci scrivi un libro>>.
<<Pensa a curarti. Per le memorie c’è ancora tempo>>.
<<Certo, certo… però è meglio non correre rischi>>.
Andai a prendere il registratore. E il vecchio Rossini iniziò a raccontare. Quando era stanco mi faceva segno di interrompere la registrazione e andava a giocare con mio figlio o a chiacchierare con Colomba. La notte ci ritrovavamo spesso a fumare in silenzio, al buio.
<<Chissà cosa c’è dall’altra parte?>> chiese una mattina mentre facevamo colazione al bar.
<<Nulla>> risposi, dando un morso al croissant.
<<Già. Credo anch’io>>.
La settimana seguente ci raggiunse Maurizio. Il suono dei suoi sassofoni riempì la casa e il giardino, rendendo più lievi quelle lunghe sedute di fronte al registratore. A me più che a Beniamino, che scavava senza incertezze nella memoria della sua vita da fuorilegge alla ricerca di avventure e aneddoti degni di essere raccontati. Io, invece, avrei voluto mille volte spegnere e rinviare per anni e anni la raccolta di quel materiale.
Beniamino era arrivato dando per scontato che avrei scritto un libro sulla sua vita e non avevo avuto il coraggio di spiegargli che la scrittura era una faccenda complessa. Ero turbato dall’idea che quel suo desiderio di raccontare fosse dovuto alla malattia e alla convinzione che non gli restasse più molto tempo. Fui però subito affascinato dalla bellezza delle sue storie, e i miei dubbi si dissolsero completamente quando mi resi conto che il vero Beniamino Rossini, il carissimo amico che avevo trasformato in uno dei protagonisti della serie dell’Alligatore, assomigliava davvero a quello di carta, e nella mia testa cominciò a prendere forma il progetto.
Beniamino ripartì quando ritenne di avermi raccontato tutto. Io e Maurizio l’accompagnammo all’aeroporto. In casa la sua presenza aleggiò ancora a lungo e ogni tanto, di notte, mi sembrava di vedere nel buio il puntino luminoso della sua sigaretta.
Il tempo aveva posato un velo di polvere sulla custodia delle cassette che stavano in bella mostra sulla mia scrivania, vicino alla foto che Beniamino mi aveva regalato prima di partire. Era stata scattata in un sentiero di montagna, quando il mio amico era molto più giovane. Non aveva la maglietta e si notava il suo fisico alto, slanciato e muscoloso. Era già stempiato, e con i capelli corti e quel taglio di occhi assomigliava a Diabolik. Se n’erano accorti anche i finanzieri che avevano iniziato a chiamarlo così per distinguerlo dagli altri contrabbandieri.
Una sera Beniamino mi telefonò <<Hai iniziato a scrivere?>>.
<<Non ancora. Ho altri lavori da finire…>>.
<<Sbrigati. Vorrei fare in tempo a leggerlo. Hai pensato al titolo?>>.
Sceglierlo non era stato difficile, me lo aveva suggerito proprio lui: <<La terra della mia anima>>.
Rimase a lungo in silenzio. Canticchiò alcuni versi di una vecchia canzone di contrabbandieri dell’est:

Sul confine
sarà la pioggia a lavarci
e il sole ad asciugarci
La foresta ci proteggerà
contro le pallottole
E il vento soffocherà
l’eco dei nostri passi… (1)

Poi riattaccò.

(1) Nota: canzone popolare polacca tratta da L’Amante dell’orsa maggiore – Medusa, gennaio 1942.

© 2006 edizioni e/o Roma.

Tratto da La terra della mia anima di Massimo Carlotto