Esce in libreria il nuovo romanzo di Luisa Mattia, La magia di Stonehenge, l'ultimo della trilogia dedicata al giovane Merlino. Ecco qui un estratto dal libro.
Destino. Era una parola che aveva sentito pronunciare 
spesso e di cui, ancora, comprendeva poco il senso e molto 
il peso. Sapeva ciò che aveva significato per lui: una vita 
scomoda. 
«Tu porti il segno della magia e del potere» gli aveva 
detto Blasius. Maestro di saggezza, l’anziano sacerdote lo 
aveva, con quelle parole, condannato alla sua sorte. 
Un mago e un re. Doveva essere questo prima di essere 
Merlino, il ragazzo dai capelli rossi e il cuore gentile, stupito 
della sua magia più di quelli che lo accompagnavano. 
Non si sentiva un mago. E neppure un potente. Non ancora. 
Sentiva, invece, intera la sua fragilità. 
Gli venne voglia di liberarsi del peso che gli gravava sul 
cuore. Accelerò il passo e raggiunse le stalle. 
Amado, il suo cavallo, riposava. 
Al sentirlo entrare, emise un lieve nitrito, appena un 
soffio. 
«Andiamo» gli sussurrò Merlino. 
Gli mise la cavezza e lo cavalcò a pelo, come era abituato 
a fare. 
Prima lasciò che Amado decidesse il passo. Poi, usciti 
dal recinto delle mura, lo incitò al trotto. Quindi, imboccato 
il sentiero che costeggiava il fiume, lo lanciò al galoppo, 
finché sparirono nel fitto della foresta. 
Erano quelli luoghi conosciuti. 
Amado continuò la sua corsa per un po’, poi andò rallentando 
e infine si fermò. 
S’era fatto più buio, adesso. Il bosco risuonava di rumori 
conosciuti: il frusciare delle foglie, il muoversi delle felci 
al passaggio di un tasso, il battere insistito del picchio 
sui tronchi. 
Il silenzio, intorno, era pieno di suoni amici. 
Cercò con lo sguardo l’entrata della grotta. 
«Questa è la mia casa» pensò con tenerezza. 
Qui, oltre la fessura stretta dell’entrata, si accedeva allo 
spazio segreto che aveva accolto lui e Enid. Solo loro. Casa, 
dunque. Un luogo in cui aveva misurato il tempo insie- 
me a lei, dandogli il segno del presente. Qui e ora. Loro 
due e niente altro, nessun altro. 
Qui e ora. 
Enid non c’era. E lui stesso aveva la testa e il cuore altrove. 
Dove non avrebbe saputo dire. 
Non c’erano tane che potessero proteggerlo da quel che 
era accaduto e da quel che sarebbe successo: Deer era morto, 
Ektor ne occupava indegnamente il posto e lui, Merlino, 
avrebbe dovuto agire per riconquistare dignità e potere. 
Non c’era posto per Enid. 
Non c’era posto per loro. 
Scese da cavallo, superò la grotta senza entrarvi e si inoltrò 
ancora di più nella foresta. Cercava una pace che non 
veniva. 
Un fremito, nella luce cupa del bosco. 
Si mise in allarme e portò la mano al fianco, dove teneva 
il pugnale. Amado gli era alle spalle. Vicino. Gli diede 
una musata sulla schiena, quasi a confortarlo. 
Merlino restava fermo. Controllava il respiro e si fece 
attento a ogni rumore. 
Un altro fruscio. Non era una volpe né un moscardino. 
Chiuse gli occhi, per concentrarsi meglio. Sentì il respiro 
quieto di Amado, alle sue spalle. Percepì l’umidità della 
notte che s’appoggiava goccia a goccia sul viso e sugli 
abiti. Lontano, udì lo scorrere di un ruscello, poi il richiamo 
di una civetta. Poi il tonfo sordo di zoccoli sulle foglie 
del sottobosco. 
Un cervo. 
Riaprì gli occhi e si mise a osservare intorno, cercando 
di localizzare il punto da cui il cervo sarebbe arrivato. 
Ancora il passo attutito. S’avvicinava. Si sarebbe fermato 
a brucare. Forse. 
Lo sperava. 
S’alzò un vento leggero, che attraversò il bosco con un 
soffio teso e improvviso. La corrente d’aria mosse le foglie, 
intrecciò qualche ramo, poi si sciolse nel buio. Un silenzio 
ovattato, ora, avvolgeva Merlino e l’intera foresta. 
In quel momento, lo vide. Vicino. A un soffio da lui. Il 
cervo avanzava lieve, il grande palco delle corna a decorare 
il capo, lo sguardo liquido a fissare il ragazzo e il suo cavallo. 
Lui, Merlino, il fiato sospeso, allungò una mano, ad accarezzare 
il collo dell’animale. Ne toccò il mantello. Appena. 
Il cervo non si ritrasse e lasciò che la sua mano lo sfiorasse, 
a disegnarne la curva della groppa. 
«Merlino». 
La voce gli era nota. 
«Sire». 
Chinò il capo, in segno di rispetto e di sottomissione. 
«Guardami». 
Il cervo era scomparso e al suo posto si stagliava la figura 
altera di Deer, il volto severo, lo sguardo a indagare la 
figura di Merlino. 
«Dunque, non siete...». 
«Morto?». 
«Così hanno detto a Demezia, ma io non ho ancora visto 
il corpo del re ucciso e adesso so che non...». 
Merlino si slanciò verso il nonno, cercando il suo abbraccio. 
Tese le mani, a stringere quelle del re. 
S’azzardò a circondargli le spalle. 
Si ritrovò le mani vuote, le braccia senza sostanza. 
«Ti hanno detto il vero, Merlino. Il re è morto». 
«Ma come è possibile?». 
«È certo che non puoi toccarmi, vero? Tu stesso hai visto 
come le braccia tornano vuote e non raccolgono strette». 
«Ma voi siete qui, nonno. Io vi vedo». 
«È un privilegio concesso a te, a te solo. E per poco tempo 
ancora. Dopo, se il tuo cuore sarà puro e appassionato 
come lo è adesso, godrai ancora della mia presenza ma in 
altra forma. Ti seguirà un cervo, a darti il segno della mia 
protezione, della mia approvazione». 
«So cosa devo fare, Sire. Ektor occupa indegnamente il 
potere a Demezia». 
«Non glielo consentirai, lo so. E un’altra cosa non dovrai 
permettergli». 
«Quale?». 
«Cambiarti il cuore. Il confine tra il coraggio e la brutalità 
è sottile, così quello tra l’amore e il possesso. Quasi impercettibile 
è la linea tra la saggezza del giusto e 
l’arroganza del potente». 
«Saprò distinguerne i confini». 
© 2006 edizioni e/o
Tratto da La magia di Stonehenge di Luisa Mattia