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New York e la vita mi sorridevano, poi mi sono fatto fregare dall'«akrasia»

Autore: Marco Rossari
Testata: La Repubblica - Robinson
Data: 27 giugno 2020

«La notte che fuggii dalla terra dei giganti partii nel pieno di una tormenta che, temevo, avrebbe presto reso le strade del tutto impraticabili». Che bello partire in una tempesta di neve e lasciarsi alle spalle tutto. Al diavolo e arrivederci. La tormenta che a fine anni ottanta Peter Kaldheim, 37 anni disoccupato ex editor con velleità da scrittore, si lascia alle spalle non è solo meteorologica, ma anche esistenziale, lavorativa, bancaria. È pieno fino al collo di debiti. Ha tirato una fregatura a un malvivente soprannominato «La Mazza» famoso perché ha spaccato una tibia a un debitore con appunto une mazza. Non è un bel soprannome, ed è sufficiente a spingere un povero diavolo come lui a montare su un Greyhound e andarsene da New York.

L'incipit di Vento idiota è frenetico come il finale d1 Quei bravi ragazzi e racconta gli ultimi giorni in città di Pete il Cappellaio, ormai pusher, altro che writer, in un turbinio frenetico di appuntamenti e feste, locali e pippate, soste al bagno e brevi dormite, finché non finisce a letto con una donna, e viene cacciato dopo poche ore di sonno col pretesto che il fratello di lei - un minaccioso «Demeoi» - deve passare a riparare qualcosa e la crede ancora vergine.

Da lì, nella migliore tradizione americana dai pionieri a Jack Kerouac, parte a gambe levate, per evitare la Mazza e andare a ovest, o insomma dove lo porta il vento.

Idiot Wind, come un celebre pezzo di Bob Dylan. Che cos'è questo vento? Se in Dylan è il continuo bla1erare di una coppia in crisi, Per Kaldheim coincide con l'akrasia, parola greca che definisce l'indole ignava di mandare tutto a puttane. Debolezza, volubilità. Aveva preso la laurea, trovato lavoro in una casa editrice, pensato di fare carriera nel mondo letterario newyorchese, sposato la fidanzatina del liceo. La vita era lì, a portata di mano. L'obiettivo era scrivere il primo romanzo. E invece lui e la moglie avevano cominciato ad andare a troppe feste, a tirare tardi, a diventare indolenti e Kaldhelm s'era fatto prendere dal virus più grave e diffuso tra gli scrittori, l'autocommiserazione. Matrimonio finito, una serie di insuccessi, e pure la morte di una compagna, come se lui avesse avuto bisogno di altri pretesti per sbandare.

Kaldheim parte con poca roba e molta paura. «Una confezione di pane in cassetta Wonder Bread. Un barattolo di marmellata di uva Welch's. Un pacco doppio di rasoi Bic usa e getta. Un tubetto di dentifricio da viaggio Colgate. E una confezione di tabacco da rollare Bugler. Non si poteva dire che non viaggiassi leggero». Quando arriva in Virginia, non sa come proseguire. Chiacchiera con una cameriera sbiellata di meth in una tavola calda e a un tratto come per miracolo gli viene in mente un vecchio amico della compagna defunta e, grazie al ricordo della cara estinta, gli scrocca quaranta dollari per rimettersi in marcia. Da lì sarà tutto così. Passaggi, chiacchiere, pasti, incontri, pericoli. On the road.

C'e un'immagine che non morirà mai, poco importa la quantità di imitazioni. L'aspirante scrittore che sbevazza e se ne va a zonzo per il paese, cercando di trarre un senso dal viaggio. Qualcuno il senso lo trova, qualcuno se lo racconta e ce lo propina. Sulla strada è un romanzo ma anche un topos letterario e come tutti i luoghi è diventato comune e dozzinale, ma si accende sempre di qualche scintilla. La strada americana è un teatro aperto di facce e storie, e non serve nemmeno scrivere tanto bene - Kaldheim, a dispetto dell'iniziale, non è Kerouac e non è Kesey - per registrarle e spiattellarle con la dovuta meraviglia per la vita che ci gira intorno. E cosi ecco l'incontro con l'uomo che cerca di morire in tutte le rievocazioni belliche della Guerra Civile, il predicatore che gli chiede se fa uso di droghe (lui si trattiene perché l'elenco sarebbe troppo lungo per la tratta che devono coprire), il figlio di papà psicopatico che lo considera un guerriero Ninja di Cristo e vorrebbe che lui si spacciasse per uno psichiatra onde rilasciargli un certificato di sanità mentale e permettergli di accedere a un fondo fiduciario dei genitori e infine regalargli un biglietto fino a San Francisco (strano, non ce lo faranno). E poi il freddo, le formiche rosse quando dorme all'addiaccio, la scoperta che per farsi caricare negli stati battisti torna utile tracciare semplicemente una croce sul cartello (finché ne aggiunge cosi tante che sembra un cimitero disegnato da un bambino). Insomma una caterva di avventure.

Il tono è scanzonato, divertito da se stesso e dal mondo, anche quando trova in sé e nel mondo solo disperazione. Peccato per qualche stucchevolezza di troppo ( «Era come se la strada mi stesse dicendo: Se vuoi cambiare la tua vita, ecco da dove devi iniziare - dall'empatia, dalla lealtà, dalla carità»), ma gliele si perdona. Sotto un cavalcavia trova la scritta «Dieci anni sulla strada. Che Dio mi aiuti, devo essere pazzo». Ma Allen Ginsberg è morto, Neal Cassady è morto e noi ce la caveremo. «Chissà, magari ci scappa pure un libro». Infatti.