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“Ogni volta che ti picchio”: la realtà della violenza domestica raccontata in un romanzo senza nomi

Autore: Alessandra Vescio
Testata: Bossy
Data: 16 luglio 2020
URL: https://www.bossy.it/ogni-volta-che-ti-picchio-meena-kandasamy.html

Nel 2012, sulla rivista indiana Outlook è stato pubblicato un articolo dal titolo “I singe the Body electric”, in cui l’autrice raccontava le violenze e gli abusi subiti all’interno del suo matrimonio durato quattro mesi, e degli effetti che ciò ha provocato. A firmare questa testimonianza è stata Meena Kandasamy, poetessa, scrittrice e intellettuale femminista indiana. Le reazioni suscitate dall’articolo furono moltissime e le più comuni le vennero rivolte anche durante la presentazione di un suo libro di poesie, poco tempo dopo la pubblicazione del pezzo. Come ha riportato Deepa D. su The Wire, le donne presenti all’evento non erano tanto interessate alla collezione di scritti poetici di Kandasamy quanto a manifestare la loro indignazione e la loro incredulità per ciò che era stato raccontato nell’articolo: com’era possibile – si chiedevano, infatti – che una donna femminista abbia potuto subire e accettare tutta quella violenza? “A me non sarebbe mai successo”, “Io non l’avrei mai permesso”: osservazioni simili, ascrivibili al fenomeno del victim blaming, si sovrapponevano una sull’altra per creare un distacco dal racconto e dalla persona, creando l’effetto scontato di sminuire la potenza e la validità della storia.

Cinque anni dopo, quell’articolo si è trasformato, ha nascosto il nome dell’autrice, si è addentrato nei dettagli ed è diventato un libro dal titolo “When I hit you”. Non un’autobiografia, ma un romanzo; non il racconto di una serie di abusi, ma una denuncia; non un’eccezione, ma una storia priva di nomi in cui qualunque donna vittima di violenza domestica possa immedesimarsi e ritrovare se stessa, il suo dolore, il suo sentire. Uscito in Italia a giugno 2020 per Edizioni E/O col titolo “Ogni volta che ti picchio”, il romanzo di Meena Kandasamy scava nei costumi indiani intrisi di patriarcato, in tossiche consuetudini tra uomini e donne, nella solitudine dell’emarginazione e del controllo, nel dolore dell’abbandono, nell’impossibilità della scelta di fronte alla violenza.

La trama principale di “Ogni volta che ti picchio”, su cui si innestano racconti antecedenti, dialoghi privati e stralci di lettere d’amore, vede al centro un matrimonio violento durato quattro mesi. Lui è un docente universitario, marxista ed ex militante, che concepisce il comunismo come una religione, “anche se giura di essere contro la religione”, e appare come una “copertura per il suo sadismo”. Lei è una scrittrice, poetessa e stimata intellettuale, con alle spalle una storia con un politico più grande di lei, che in pubblico l’ha sempre rinnegata e tenuta nascosta.

Subito dopo il matrimonio, avvenuto poco dopo essersi conosciuti, i due protagonisti si trasferiscono in un’altra città, dove lui ha trovato lavoro presso l’università locale. Lontana dalla famiglia, dagli amici, dai posti e dalle cose note, in un luogo in cui non conosceva neppure la lingua, lei inizia a sentirsi sola e a trascorrere tanto tempo in casa. All’inizio è tutto piuttosto normale: parla molto al telefono, scrive e lavora tanto al computer, mantiene i contatti col mondo esterno. Pian piano però il marito comincia a costruirle attorno degli ostacoli alla sua quotidianità, dei limiti alla sua libertà. Prima la convince ad acquistare una scheda telefonica del posto e a non utilizzare più il solito numero, poi si fa dare le sue password, le disattiva l’account Facebook e infine – con un semplice click – elimina le 25.600 mail che lei aveva sul PC. In un colpo solo, cancella il passato, il presente e tutti i legami che ancora la rendevano parte del mondo esterno. Da quel momento in poi, sarà lui a rispondere alle mail e la firma porterà i nomi di entrambi: con lei vuole creare un rapporto simbiotico, come fanno – dice lui – le persone che si amano davvero. È in atto un processo di deumanizzazione, fatto di annullamenti e scatti di ira e l’obiettivo è quello di annientare la sua identità di donna, scrittrice, persona, di cancellarle materialmente il passato e di punirla per ciò che ha o non ha vissuto. Troppo borghese, troppo poco comunista, indegna di essere chiamata “compagna”, indegna di essere una moglie, semplicemente una puttana: ecco cos’è lei per lui, e lui è lì per aprirle gli occhi e salvarla.

Innanzitutto deve smetterla di truccarsi o badare troppo all’abbigliamento: lui la vuole quanto più possibile non curata, perché la vanità è un concetto borghese e contraddistingue le donne non rispettabili. Sono “questioni di poco conto”, le risponde la madre quando lei le riferisce come lui voglia decidere anche cosa lei debba indossare. Gli uomini “vogliono nascondere la bellezza in te”, le dice, come se fosse una cosa normale, un’abitudine da accettare e minimizzare. Poi comincia a non sopportare il fatto che lei lavori e scriva: non accetta che lettori e lettrici immaginino la sua persona dietro i suoi articoli, che nei suoi saggi appaia la parola “amante” né tantomeno che lei parli di sesso. Non vuole che trascorra troppo tempo davanti al computer, a parlare con sconosciuti, a usare le parole per esprimere se stessa, le sue conoscenze, la sua preparazione. “Devo ricordare a Madame Scrittrice che è anche una moglie?”, le chiede quando, in partenza per un weekend a casa dei genitori di lui, lei vuole portare con sé il suo computer, per poter scrivere e consegnare in tempo un lavoro importante.

La rabbia genera le botte, i colpi violenti, le minacce di morte. Tutto diventa un’arma: il cavo del computer con cui le lega le braccia lasciandole dei lividi, una scopa che le colpisce la schiena, le mani al collo per farla soffocare. A scatenare quella furia può essere qualunque cosa: se il cibo per lui è troppo salato, se sta impiegando troppo tempo a lavare i piatti, se si lascia scappare un gemito durante un rapporto sessuale. “Trasformi l’amore in uno spettacolo”, le dice, “Urli perché per te è solo una performance”, non accettando che lei possa, anche solo per un attimo, dare spazio al suo piacere.

La gelosia che prova nei confronti di lei, del suo passato, del suo presente che è fatto di niente ma che secondo lui nasconde amanti e tradimenti, fosse anche solo nei pensieri, scatena una violenza inaudita e sempre crescente al punto da iniziare a stuprarla e a farlo ogni giorno. L’intento era chiaro e lo ripeteva di continuo: voleva distruggere la sua vagina, affinché fosse impossibile per lei avere rapporti sessuali con altri uomini, nel presente o nel futuro. Voleva distruggerla come persona e lo stupro era un castigo: “Nella sua logica ferrea: sono una puttana, quindi posso essere stuprata; mi lascio stuprare, quindi sono una puttana”, scrive Kandasamy.

Abbandonata da tutti, persino dalla famiglia che provava a convincerla a restare in un matrimonio violento pur di non dover affrontare il giudizio altrui e la vergogna di un divorzio, la protagonista senza nome ha potuto fare fede solo su se stessa, sulla sua fantasia, sulla sua speranza. Sulle lettere che scriveva e cancellava di continuo ad amanti mai esistiti, sul desiderio di fuggire, di andare lontano, mentre “agli occhi del mondo, una donna che fugge dalla morte è più dignitosa di una che fugge dal proprio uomo”. E quando finalmente, a un passo dalla morte, riesce ad andare via, si ritrova a subire anche victim blaming, a sopportare le opinioni altrui, i commenti di chi non credeva possibile che una femminista avesse potuto subire così tanta violenza, la delusione di parenti e amici nel vederla tornare e abbandonare il tetto coniugale, la diffidenza davanti ai racconti dello stupro nel matrimonio. “L’uomo che mi violenta – si legge nel libro – non è uno sconosciuto che scappa. […] è qualcuno che si sveglia accanto a me”.

Nel romanzo crudo e onesto di Kandasamy, non è solo la brutalità e la violenza a stupire, ma anche l’ironia, l’acutezza e la lucidità con cui la protagonista descrive il mondo che la circonda e la società in cui vive. Con un tono di voce che sa essere anche dissacrante, “Ogni volta che ti picchio” racconta il funzionamento delle caste, la subordinazione della donna e la concezione del suo corpo che diventa contaminato se fa sesso prima del matrimonio, la mascolinità tossica che impregna usi, costumi e relazioni, gli ideali politici che diventano nuove giustificazioni per perpetuare le medesime consuetudini patriarcali. Meena Kandasamy ha scritto un libro di finzione che racconta la realtà: la realtà di una persona, di un territorio, di una società, ma che – a guardarla bene – è una realtà che esiste ovunque, a prescindere dallo spazio e dal tempo, ed è una realtà fatta di abusi, di violenze domestiche, di stupri all’interno di relazioni e matrimoni, di tende chiuse a nascondere il terrore. Perché come ha scritto la stessa Kandasamy in quell’articolo del 2012, “In una casa di porte che sbattono e di sogni spezzati, non ci sono baci. Solo la sicurezza di tende silenziose”.