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«Gli uomini non sono i signori delle nostre vite. Da single, però, io non farei un figlio»

Autore: Luca Mastrantonio
Testata: 7 - Corriere della Sera
Data: 22 agosto 2020

Segnatevi questo nome: Mieko Kawakami. Arriva in Italia il suo romanzo che racconta le piccole grandi odissee di tre donne nel Giappone maschilista di oggi. Sottolineare solo gli aspetti femministi di Seni e uova però è fare un torto a un libro che ha raccolto consensi di critica e pubblico, encomi e premi, facendo letterariamente perdere la testa ad Haruki Murakami. L'abbiamo letto in anteprima e l'impressione è di essere stati a un luna park: la paura di volare si mescola a quella di cadere, il riso nervoso alle lacrime di gioia. Lo stile, rapido e crudo, ci fa avanzare in un campo minato: il rapporto delle donne con il corpo che cambia e la difficoltà degli uomini a comprenderne la psiche. Protagoniste sono due sorelle e la figlia della maggiore: Makiko, che lavora come hostess in un bar a Osaka, va a Tokyo per rifarsi il seno a prezzi popolari, la figlia Midoriko, in piena pubertà, non lo accetta e si chiude in mutismo rotto solo grazie alle pagine del suo diario; zia Natsuko, che le ospita, da blogger divenuta scrittrice famosa, vuole diventare madre, benché sia single.

Sì, c'è la casa delle streghe al luna park di Kawakami, l'auto-scontro, il calci-inculo, il tiro al bersaglio. Ma soprattutto montagne russe, dove le lunghe rampe (il libro è di 600 pagine) portano a discese rapide e giri della morte. Piccoli e ironici, come quando Midoriko spia la madre che parla nel sonno sperando di carpirle un segreto, ma la sente solo dire «Un'altra birra, per favore!». E grandi e sconvolgenti, come la scena delle uova scadute prese da un frigo che pare "l'ufficio oggetti smarriti", la cui rottura si trasforma in un rito catartico. Parliamo con l'autrice via mail, con l'aiuto di Gianluca Coci, che ha tradotto il libro che esce il 26 agosto per E/O.

In Italia lei è inedita. Come si descriverebbe a chi non la conosce?

«Sono nata e cresciuta a Osaka e vivo a Tokyo da circa vent'anni. Scrivo poesie e romanzi mentre mi prendo cura del mio bambino di otto anni. Bevo suppergiù quattro litri di acqua al giorno».

II libro inizia con questa frase: per capire quanto una persona è povera, basta chiedere quante finestre c'erano nella sua casa d'infanzia. La sua era luminosa?

«Sono cresciuta in povertà, guardando mia madre lavorare dalla mattina alla sera per i suoi tre figli. Eravamo spesso a corto di denaro e pensavo che uno di noi tre non ce l'avrebbe fatta e sarebbe morto prima di diventare adulto. Era una paura infantile, siamo cresciuti in salute. Mia madre era sempre molto dolce e allegra e non ci ha mai fatto mancare il sorriso. Se un giorno dovessi rinascere vorrei avere la stessa mamma e gli stessi fratelli».

Makiko fa la hostess in un bar, uno dei tanti lavori che anche lei ha fatto, prima del successo. La giovane Midoriko scrive per dimenticare le cose spiacevoli. Natsuko è scrittrice e madre. C'è molto di autobiografico?

«Sì. La forza di saper piangere e ridere allo stesso tempo è il tratto che mi lega indissolubilmente alle tre protagoniste del romanzo. Tipico di Osaka, la mia città natale. Siamo persone solari, piene di humour, ci piace guardare le cose da diverse angolazioni. Quando chiacchieriamo, quando pensiamo, è come se un secondo io si insinuasse nel processo dialettico e ci aiutasse a considerare l'argomento da un'altra prospettiva. Così anche nelle situazioni più tragiche riusciamo a farci una risata. Aiuta a vivere meglio, se non addirittura a vivere più a lungo. Il passaggio dall'arrabbiatura al sorriso è uno dei leitmotiv del rapporto con mio figlio... Come tutti i bambini fa i capricci, litighiamo, ma poi facciamo pace e ritroviamo il sorriso. A volte scoppiamo a ridere a crepapelle e colgo il grande potere taumaturgico delle risate. Ma può accadere anche il contrario, che lo faccio ridere così tanto da togliergli il fiato, e allora lui mi guarda con cipiglio e si arrabbia di nuovo! "Mamma, smettila di farmi ridere!" mi urla imbestialito... Il problema è che sono di Osaka, e a noi di Osaka piace un sacco far ridere la gente!»

Sugli scaffali di Natsuko, c'è molto Dostoevskij. La disperazione che il russo mette in scena è bilanciata dalla fede. Che rapporto ha lei con la religione?

«Negli ultimi dieci anni mi sono ritrovata spesso a riflettere su questioni che riguardano la fede e la religione. Il mio prossimo romanzo avrà a che fare con le cosiddette "nuove religioni" del Giappone e il post-Aum Shinriky, la setta passata alla storia per l'attacco alla metropolitana di Tokyo con il gas sarin. In Giappone non c'è una religione predominante, ma vige un sistema sociale basato sul patriarcato. Spero che ogni individuo, al di là del genere, possa rendersi il più possibile indipendente dalle costrizioni della società, anche affidandosi a un "dio", non per forza in senso convenzionale, che sia in grado di fungere da medium verso il cambiamento sostituendosi al nostro sistema sociale troppo rigido».

Nel libro il linguaggio è spesso crudo. Suggerisce, mi pare, che solo chiamando le cose con il loro nome si possono far cambiare. Una ex collega di Natsuko parla della propria madre, sottomessa al marito, come «serva munita di fica». Lei ha mai usato o subìto espressioni così forti?

«Sul web ho ricevuto insulti sessisti, offese e abusi verbali, e episodi di stalkeraggio estenuanti. Fatti gravi, ma a "senso unico", soliloqui di persone che andrebbero curate. In casa spesso litigo con mio marito, Abe Kazushige. Siamo scrittori, lavoriamo e ci occupiamo di nostro figlio, e a volte perdiamo un po' le staffe e ci affrontiamo come due rapper in una gara di freestyle... Litighiamo per le solite questioni legate a problemi di genere maturati in lunghi secoli di patriarcato: oggi tocca a te fare le pulizie, domani accudisci il bambino e così via...». Cosa del maschilismo giapponese la offende di più? «Noi donne giapponesi non possiamo acquistare liberamente pillole contraccettive in farmacia e quando ci sposiamo prendiamo in automatico il cognome dell'uomo. Molte donne giapponesi per riferirsi al proprio marito usano ancora il termine "shujin", che significa "signore", "padrone". Ma no, non è semplicemente un segno di rispetto nei confronti della tradizione nipponica. La parola fa chiaro riferimento a un rapporto di dipendenza e sottomissione: chi non coglie la sfumatura sostiene senza volerlo un sistema in cui la donna in quanto moglie è sottomessa all'uomo in quanto marito. La società giapponese tende ad assecondare il desiderio sessuale maschile, e si possono trovare ad esempio riviste porno nei supermercati. Numerosi siti web accessibili anche ai bambini pubblicizzano materiale pornografico, oltraggioso nei confronti delle donne, e non è raro imbattersi in immagini di ragazzine che alludono a contenuti pedopornografici. Pura violenza, è indegno per un paese che osa definirsi civile. A volte anche i cartoni animati trasmessi in tv mostrano in maniera esplicita abusi di natura sessuale e scene accomunate da misoginia. L'unica speranza è nelle nuove generazioni e in un sistema scolastico che prenda coscienza del problema».

Per raccontare i gruppi sulla fecondazione assistita e le banche del seme cui si rivolge Natsuko, ha fatto ricerche sul campo. Cosa l'ha colpita di più?

«I diari scritti da persone nate tramite fecondazione assistita. Mi sono stati d'aiuto per modellare il personaggio di Aizawa Jun, nato grazie alla fecondazione assistita (in cerca del padre biologico, ndr). Leggendoli mi sono commossa fino alle lacrime, pensando alle enormi difficoltà che hanno dovuto affrontare e affrontano in un paese conservatore come il Giappone, alla loro enorme tristezza e sofferenza».

Il romanzo mette a confronto i diritti di chi nasce ad avere una famiglia, a conoscere il genitore biologico, e il diritto di una donna ad avere un figlio, anche se single, come Natsuko. Lei condivide la scelta, da single, di diventare madre?

«Probabilmente, se non avessi messo al mondo un figlio, non avrei potuto scrivere questo romanzo. Oggi in Giappone parecchi giovani sono tutt'altro che entusiasti all'idea di procreare, esiste una vera e propria ideologia antinatalista. Io ho un figlio, ma comprendo quella logica. Infatti ho inserito il personaggio di Zen Yuriko, di cui condivido molte affermazioni: nessuno dovrebbe compiere determinate azioni solo perché ne ha il diritto. Perché concepire un'altra vita? Perché si viene presi dal desiderio di incontrare una nuova persona, piccola creatura che fino a poco prima non esisteva? Io, come persona che ha partorito un figlio, ho il dovere di continuare a pormi domande del genere, né più né meno come ho fatto nel mio romanzo attraverso i miei personaggi. Tuttavia, se fossi stata al posto di Natsuko, non credo avrei optato per la stessa scelta... Poco fa ho detto che ho deciso di avere un figlio, ma forse non è l'espressione più appropriata, una gravidanza non è un programma stabilito dall'uomo. Bisogna riflettere ancora molto sulle questioni legate alla procreazione».

Nastuko, poco prima di entrare nel bar dove ascolta i Nirvana, vede lo spettro del padre che gli chiede conto della madre morta. Lei ha dei fantasmi?

«Da bambina pensavo spesso alla morte, a volte avevo quasi la sensazione di voler morire, ero terrorizzata all'idea di perdere la mia cara nonna. Poi mi sono lasciata alle spalle quel periodo negativo e ho cominciato a vivere i miei giorni fino in fondo, con il preciso intento di non avere mai rimpianti, ma presto mi sono resa conto che è impossibile non avere rimpianti nella vita, soprattutto all'indomani della scomparsa di un proprio caro. Per quanto ci si impegni e si cerchi di riempire la vita, niente può colmare la perdita di una persona cui si è legati. Ora mia nonna non fa più parte di questo mondo, se n'è andata via da poco e provo un sentimento molto strano, inesprimibile a parole. Non è rimpianto, né tristezza, né tanto meno malinconica gratitudine. So solo che mi pare più che mai inspiegabile e straordinario che ciascuno di noi venga al mondo, viva la sua vita e muoia».

Nel libro descrive i maschi che a scuola alzano le gonne alle ragazze e ci mostra due disagi: la vergogna di chi patisce l'intimità violata e la vergogna di chi si dispera per non essere oggetto di quelle attenzioni. La popolarità oggi è il valore assoluto, sui social: non è pericoloso?

«La maggior parte delle donne tende a dare priorità assoluta al giudizio altrui anziché al proprio riducendosi a un mero oggetto. I social esagerano ed enfatizzano molti aspetti della realtà. Esasperano le emozioni, ne alterano la genuinità e rendono ansiosi e inquieti. Ma non vanno demonizzati. L'importante è che i giovani si rendano conto che si tratta di un mondo perlopiù virtuale, che è possibile spegnere schiacciando un tasto. Là fuori esiste anche il vecchio e meraviglioso mondo di sempre».

A un incontro Murakami le ha detto che gli uomini sono crudeli in maniera logica o psicopatica. La crudeltà delle donne è «più ordinaria, quotidiana. Ogni tanto, possono prenderci di sorpresa». Lei è mai stata crudele?

«Non ricordo di aver mai fatto qualcosa di crudele, però do per scontato che ci siano persone convinte che mi sia comportata in modo crudele nei loro confronti. Poi: gli autori dei crimini più efferati sono soprattutto gli uomini, perché sono più irruenti e irrazionali. Credo che Murakami volesse dire che i motivi alla base dei comportamenti deviati maschili sono spesso estremamente semplici e irriflessivi, e io sono d'accordo su questo».

Nota differenze tra come vivono l'amore gli uomini e le donne?

«Posso dire cos'è per me l'amore: impiegare una vita intera, ogni singolo istante della propria esistenza, per capire a fondo che la vita di ciascun essere vivente è una sola e non torna mai più».