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Niente per lei – Intervista a Laura Mancini

Autore: Maria Gaia Belli
Testata: Tropismi
Data: 9 agosto 2020
URL: https://www.tropismi.it/2020/08/09/niente-per-lei-intervista-a-laura-mancini/

Sono nata e cresciuta in un paese vicino Roma, un paese che sopravvive sull’orlo di una galassia urbana che divora metà del Lazio. Roma per me è timore e amore. È, nel racconto della nonna, quella volta che sono partiti all’alba, su un autobus rimediato, per andare a vedere il Papa. Nelle gite con i miei genitori, era una mostra al Vittoriano, un gelato in un posto a caso, sempre tanto bello da bucare gli occhi. E l’ansia costante per il parcheggio.

Roma, neanche cento chilometri da casa mia, vuol dire partire la mattina presto senza sapere quando sarà il treno per tornare. È una camminata sotto il sole per sbirciare un panorama dall’ombra fresca di un aranceto, e una corsa tachicardica su un binario lungo come un’autostrada. È i pappagallini tropicali in centro, l’albero di Natale in piazza con trenta gradi. È, senza dubbio, il tipo piazzato sulle porte di Stazione Termini, che ti fa lo sgambetto alla valigia e chiede: ma ’ndo corri, ’ndo vai, che tanto, ’ndo hai da annà? Odio Roma, quindi vivo a Torino. Ma nessuna giornata di Torino ha mai i colori di Roma, e di certo non riserva le sue sorprese.

Una sorpresa romana è il libro di Laura Mancini, Niente per lei, esordio 2020 per Edizioni e/o. L’ho letto di colpo, nel tempo che di solito mi do per una visita a Roma, e addosso m’è rimasto lo stesso ricordo di profumo d’oleandri, sole aranciato, sopra un fondo di paure e accettazione.

Niente per lei racconta la vita di Tullia, una bambina – poi una ragazza, poi una donna – che vive nella Roma del dopoguerra. Leggendo ho avuto l’impressione che, crescendo nelle campagne laziali, sono stata a tanto così dall’orlo del precipizio.

In uno dei capitoli iniziali, anche Tullia passa qualche tempo in campagna. Né lei né la sua famiglia, tuttavia, sembrano accorgersi che la piccola parentesi arcadica potrebbe essere l’ultima uscita d’emergenza, prima d’imboccare un raccordo infinito in cui le loro vite cominceranno a girare sempre sugli stessi errori. Come chiunque sia stato bene una volta a Roma, nonostante le bombe, la povertà, la fame, mille figli, zii a carico, vicini invadenti, ci tornano e ci restano.

Tullia è l’archetipo della Wendy di Barrie appeso al contrario, come lei urla «Voglio crescere subito!», e suo padre, proprio come il padre di Wendy, un bel giorno le spiega: «Da domani dovrai crescere». Ma per lei, già sorella maggiore di troppi bimbi sperduti, vicemamma, vicebabbo, mano che porta il pane a casa, mano che non picchia ma solo accarezza, non c’è nessun Peter che passi a rapirla dalla finestra, per mostrarle dall’alto quanto misera è la vita degli adulti. Non c’è davvero niente e nessuno per lei. Tullia fa all’indietro il percorso degli eroi delle fiabe: nasce grande, scappa tardi, maltratta la fata madrina che le offre la zucca magica, rompe da sola l’incantesimo della torre-galera, si trova sola ad attraversare giungla che è Roma. Ma nessun lupo sembra spaventarla troppo, nessun incidente e nessun impiccio – così frequenti in quel mostro urbano che è Roma – la mette in ginocchio. Neanche la sua nemesi – la mamma -, né il ticchettare instancabile dell’orologio riescono a fermarla. Con niente alle spalle va avanti: è così che si diventa Capitan Uncino, insomma? Nascendo già grandi?

Niente è per lei mi ha lasciata abbagliata per la bella fiaba nera che mette in piedi, in un contesto così urbano, così italiano – così vicino. Avevo molte domande, qualcuna l’ho fatta direttamente all’autrice, e qui sotto potete leggere le sue risposte.

***

Niente per lei è il tuo romanzo d’esordio, ma la tua scrittura denota già una maturità molto avanzata. Come sei arrivata a questo punto? Qual è stato il tuo percorso di scrittrice prima della pubblicazione? Scrivi anche racconti, o hai sempre preferito la narrativa lunga?

Ho sempre scritto sin da quando sono molto piccola, fatico a individuare un momento preciso in cui ho iniziato a farlo o a indicare un primo esperimento di rilievo che non fossero diari e taccuini, ne conservo scatole e scatole, la scrittura si è evoluta con me secondo un percorso istintivo, tra le cose. Scrivo anche racconti, mi sono avvicinata in modo più deciso al genere solo in seguito alla scrittura del romanzo e questo passaggio, solitamente inverso, mi interessa molto.

Come è stato per te esordire con una casa editrice del calibro di e/o? Vuoi raccontarci come è andata?

La scelta di e/o di pubblicare il mio romanzo mi ha lusingata ed emozionata. Ricordo benissimo la prima telefonata ricevuta da Claudio Ceciarelli, il mio editor, dopo una prima lettura del manoscritto. Non potevo credere che nutrisse interesse nei confronti del mio lavoro. Il nostro dialogo è stato graduale e subito sintonico: in una primissima fase mi sono stati indicati due elementi macroscopici su cui, se avessi voluto (…!), avrei potuto lavorare. Ho risposto con slancio alle indicazioni che tra l’altro condividevo profondamente e così il libro è stato sottoposto all’attenzione degli editori Sandro e Sandra Ferri. Quando mi hanno confermato l’intenzione della casa editrice di pubblicare il mio esordio nella loro volutamente limitata lista di libri in uscita nell’anno successivo ho provato un’enorme felicità che non dimenticherò.

Concentrandoci sul romanzo, sono rimasta colpita da alcune scelte di narrazione che mi hanno ricordato da vicino l’autrice romana forse più nota in assoluto, Elsa Morante. Al di là dell’ambientazione che fa di Roma una protagonista in tutto e per tutto, e alcuni personaggi che sembrano riecheggiare una tradizione pasoliniana, ad avermi fatto risuonare questa vicinanza è stata la tematica pervasiva della disgrazia.

I tuoi personaggi, come quelli di Morante, sono digraziati per nascita, in un ambiente dove il termine disgraziato ha doppio significato (sfortunato, irriducibile alle regole). Gli abitanti di Roma, nel tuo libro come spesso in quelli di Morante, sono gli eroi-vittime delle tragedie greche, il cui fato è già scritto nella condizione di nascita. Ho sempre trovato la narrativa di Morante stupenda quanto irritante proprio per questo motivo: leggendo La storia, per esempio, non facevo che chiedermi “Ma perché non dai mai niente di buono a questi ragazzi, Elsa? Cosa ti hanno fatto di male? Davvero non c’è nient’altro, per loro?”. È una domanda istintiva, priva di valore critico ma ricca d’empatia, che nasce dalla viscerale immedesimazione con i personaggi della storia. Com’è stato per te, dunque, scrivere una storia in cui niente, davvero niente di buono sembra prepararsi all’orizzonte delle persone che racconti? E com’è sapere che quel che hai scritto è incredibilmente realistico?

Grazie per aver menzionato Elsa Morante, il massimo riferimento novecentesco italiano per me e penso per chiunque ami la letteratura “pura”. Pur trovandola comprensibile, tuttavia non concordo fino in fondo con la tua visione catastrofica del personaggio e del contesto che abita. Tullia affronta l’indigenza, la malattia, i lutti, la perdita della casa, il lavoro minorile, la solitudine, la maternità illegittima, il lavoro operaio… certo un percorso complesso, comune a tanto sottoproletariato dell’epoca. La nostra sensibilità contemporanea ci rende insopportabile l’idea di un simile accumulo di difficoltà in un’unica vicenda esistenziale, ma questa donna affronta tutto ciò che la vita le dà in sorte senza particolare sconvolgimento. Insomma non c’è Niente per Lei, è vero, ma – e questo è il mio motivo di interesse nei confronti del personaggio, ciò che me lo rende particolarmente caro – tutto ciò non è Niente per Lei: a lei non importa. Fenomeni apparentemente tragici sembrano scivolare addosso all’enorme forza d’animo di questa piccola donna invisibile che conserva dentro di sé una caparbietà e un’integrità senza uguali, tenendosi salda al reale e riuscendo, giorno dopo giorno, a ottenere ciò che desidera, una vita semplice ma dignitosa.

Un’altra caratteristica che mi ha colpita di questo libro è la pervasività tossica degli schemi patriarcali. È passato un tempo relativamente breve dagli anni che racconti (la storia inizia nel ’43, quando la protagonista Tullia è bambina), e la percezione di questa tossicità oggi sta cambiando. Le donne del tuo romanzo vivono condizioni di violenza fisica e psicologica che le costringono spesso ad abbassare la testa, o a perderla completamente. Vediamo come Rosa è solo la prima vittima di una serie, quando il dottore le propina la tradizionale medicina del “fare figli”, che la condanna alla pazzia definitiva. Questo trauma continua a ripetersi a circolo nei suoi figli, sia nei maschi, coccolati e condannati all’irresponsabilità perenne, sia nelle femmine, Tullia e Aurora, vittime di un peso che sembrano dover portare nient’altro che per tradizione. Il finale in questo senso è agrodolce: a rompere il ciclo dei traumi è il ricordo di un padre dolce, e la nascita di un bambino, che spinge Tullia a riavvicinarsi alla figlia sulla quale aveva proiettato i traumi materni.

Nonostante la nostra sensibilità di lettori sia oggi in grado di cogliere questi aspetti, la nostra società non è poi cambiata molto. Questi schemi di violenza sono reiterati tutt’oggi (“fai figli che ti passa”; “sei donna, quindi tocca a te”; “lui è uomo, quindi gli spetta per primo”; “se non ti occupi dei figli perché lavori sei una cattiva madre”; “se vengono su viziati sei una cattiva madre”; “se hai perso il bambino è colpa tua”; “se non vuoi bambini è colpa tua”; “sei nervosa, o sei pazza, perché sei femmina”). Scrivendo una storia diluita su più decenni, hai avuto modo di percepire come la posizione delle donne cambiava rispetto alla società? Credi che gli schemi tossici che distruggono la vita di Tullia, ambientati nel 2020, sarebbero molto diversi, o sarebbero tristemente simili?

Hai ragione, sarebbe bello leggere questi aspetti della storia come appartenenti a un altro mondo e sentirli fortemente distanti e irrealistici rispetto alla contemporaneità, ma non è affatto così. La mia protagonista pur non avendo alcuna coscienza di genere né tantomeno potersi intendere come femminista, compie una scelta audace mettendo al mondo una bambina senza il sostegno di un compagno o della famiglia di origine. Nel farlo agisce contro la volontà di chiunque. La sua idea di maternità è tormentata dal tema della “brava madre” che intende come oppositivo all’esperienza diretta di figlia che ha avuto. Ma doversi dimostrare brava poiché madre è in sé una perversione e scappare da un modello finisce per condannare al tranello di un’altra imposizione sociale.

Anche lo squilibrio mentale di Rosa, la madre tormentata di Tullia, come giustamente rilevi è totalmente confuso con questioni che nulla hanno a che vedere con la salute psichica e questo è un altro fatto duramente attuale. Con una battuta potrei affermare di aver compiuto una piccola nemesi escludendo dal romanzo personaggi maschili di rilievo, in questa storia non c’è spazio per loro.

Come già accennavo sopra, il tuo libro ha una maturità stilistica eccezionale. È interessante vedere come passi da una narrazione intimistica a scene corali, scegliendo per l’una un registro classico, quasi istituzionale, mentre per le altre il dialetto romanesco. In alcune scene, quando Tullia finalmente parla, invece di pensare, si schiudono per il lettore aspetti sorprendenti della sua personalità, dello stare al mondo. C’è anche una sorta di teatralità, nelle scene di dialogo dialettali, che non è tuttavia innaturale. Com’è stato per te riportare sulla pagina la vivacità delle strade romane? Quanta della tua esperienza diretta c’è dentro, e quanto studio invece?

Grazie, il mio intento era proprio quello di far dialogare i registri, affidando a mondo interiore ed esteriore due linguaggi diversi, come in fondo accade a ognuno di noi. Sicuramente essere nata e cresciuta in questa città, sebbene non in un contesto popolarissimo come quello di Tullia, mi ha esposto a un contatto costante con la lingua e i gesti propri della tradizione orale romana. Gli studi letterari e il particolare interesse giovanile per la poesia dialettale potrebbero aver contribuito ad affinare in me una particolare sensibilità per questo aspetto. Sono affascinata dalla lingua parlata, dal contatto di strada, dal confronto diretto tra persone. Il chiasso della gente, che a volte patisco come aggressivo e invadente, a volte ricerco mischiandomi ai discorsi casuali cui in città come Roma si ha ancora la fortuna di essere esposti, mi incuriosisce e appassiona. Inoltre, credo di dovere un certo gusto teatrale a mio padre, un grande aneddotista.

Consiglieresti ai nostri lettori un posto di Roma per te significativo?

Il Tevere offre un’interessante lettura della città. Nel romanzo il fiume appare e scompare come scenario a volte tragico a volte comico della storia. Oggi passeggiare lungo la ciclabile che connette Testaccio a Ponte Milvio consente uno studio “dal basso” del cuore di Roma, ma sono anche bellissimi i tratti più selvaggi verso Marconi e Magliana, o le aperture campestri dell’area settentrionale dopo Tor di Quinto. Sarebbe bello poter frequentare le sponde del Tevere con più assiduità e rilassatezza, fermarsi a leggere, fare sport e pic nic come in tante città europee, vivere il fiume. Ma forse è proprio questa parziale ostilità del paesaggio e renderlo tanto unico.