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Il mondo si muove

Autore: Daria Bignardi
Testata: Vanity Fair
Data: 23 settembre 2020
URL: https://www.vanityfair.it/news/approfondimenti/2020/09/28/daria-bignardi-intervista-elena-ferrante-il-mondo-si-muove

La fine del patriarcato, l’amicizia, sentirsi parte della natura, la straordinaria opportunità di essere donna. Elena Ferrante, una di noi

Quando Francesco Vezzoli, direttore di questo numero, mi ha chiesto di intervistare Elena Ferrante, gli ho detto la verità: «Non c'è autrice che vorrei conoscere meglio, ma sono in ansia perché lunedì inizio un programma in radio (Radio Capitali ogni mattina alle dieci, ndr) e venerdì devo consegnare il libro nuovo, insomma, proprio questa settimana si sovrappongono due cose importanti, non ho un momento, mentre per intervistare una come lei mi serve tutto il tempo necessario, non posso, accidenti». Francesco, che come tutti gli artisti è un po' magico, mi ha risposto l'unica cosa che poteva farmi cambiare idea, ha finto di aver letto in vita sua solo un libro, il mio primo: Non vi lascerò orfani. Ovviamente - e meno male - non poteva essere vero, infatti continuando la conversazione gli è sfuggito un riferimento alle Favole al telefono di Gianni Rodari, e se avessimo continuato a parlare chissà cos'altro sarebbe uscito. Di sicuro ha letto anche Elena Ferrante, per la stima che traspariva da ogni cosa che ne diceva e da quanto ha mostrato di tenerci. Devo ringraziare la mia vanità, e la sua magia, per quest'incontro emozionante con una persona, oltre che con un'autrice, che ammiro molto, e per la quale, da oggi, provo anche un bel po' di affetto.

Cara Elena, buonasera. Come si suole dire: «Ho letto tutti i suoi libri». Quando finii voracemente, in dieci giorni, la tetralogia dell'Amica geniale, mi sentii orfana. Avevo tanta nostalgia di Elena e di Lila che non potevo smettere di pensarci. Ricordo una lunga passeggiata con un mio amico, a Trieste, in cui per un'ora gli raccontai tutta la storia loro, di Nino, Rino, Gigliola, Enzo Scanno, Stefano Carracci e tutti gli altri. L'estate scorsa ho letto un romanzo di mille pagine che mi ha fatto un effetto simile, Una vita come tante, di un'autrice di origine hawaiana, Hanya Yanagihara, lo ha letto?

«No, ma poiché a lei è piaciuto conto di farlo. Dai libri che riescono a tenere desta l'attenzione per diverse centinaia di pagine c'è sempre da imparare. Bisogna chiedersi perché accade e soprattutto come accade».

Anche lì si parla di amicizia, ma tra quattro maschi. Uno di loro, Jude, il personaggio principale, ha avuto un’infanzia terribile, che lo segnerà per sempre. Gli adulti che fanno del male ai bambini sono pur stati bambini… Quella della violenza è una catena che si può spezzare?

«Non so. A volte basta sentirsi amati, ma non sempre funziona. Gli altri sono un territorio nebbioso e di ardua esplorazione. È fin troppo facile dubitare del loro amore, specialmente se si è pericolosamente segnati».

Anche Jude è un personaggio geniale, come Lila. Ma è autolesionista. L'autolesionismo, secondo lei, fa differenze di genere?

«Credo che tutte le nostre manifestazioni siano filtrate dalle differenze di genere, anche quelle che ci sembrano, per nostra fortuna o per nostra disgrazia, più nostre».

E il senso di colpa? Mentre la leggevo ero così affascinata e disturbata dal fatto che Lena trascurasse le sue figlie per amore di Nino...

«Che dirle? Ci disturba relativamente poco che un uomo trascuri i figli per amore, mentre che lo faccia una donna infastidisce non solo i maschi ma anche noi stesse. L'esistenza femminile è stata costretta a gestire la colpa, a temerne le conseguenze, a subirle, dentro regole che le donne non hanno contribuito a fissare e che ancora oggi agiscono nel profondo. Usiamo le stesse parole, uomini e donne, ma i significati maschili hanno radici profonde, ci imprigionano e i nostri significati soffocano. D'altra parte non bisogna peccare di schematismo, la storia dei generi è anche storia di urti e commistioni, di obbedienze e ribellioni. Si ricorda la complessa articolazione dei ruoli maschili e femminili in La lettera scarlatta? Il mondo si muove».

A me il tema della fluidità di genere interessa molto, e mi chiedo se, senza condizionamenti, non cresceremmo meravigliosamente liberi, esplorando le nostre parti maschili e femminili a seconda del tempo della nostra vita, della nostra storia e dei nostri incontri. Cosa ne pensa?

«Devo confessarle che credo ormai poco a un tempo da venire in cui cresceremo e vivremo meravigliosamente liberi. Mi immagino che andrà meglio di adesso, questo sì, ma non meravigliosamente. Del resto il bello delle vicende umane, specie quando si lavora a raccontarle, è che il cambiamento risolve vecchi problemi e intanto ne genera di nuovi».

Ha seguito quel che è successo al Festival della Bellezza di Verona dove sul tema Eros e Amore erano stati invitati ventotto nomini e una sola donna?

«Sì, e mi è sembrato del tutto in linea con la tradizione maschile. Gli uomini da sempre si appassionano ai nostri corpi, ci amano, ci mettono al centro della loro arte e della loro letteratura, ma solo per suonarsela e cantarsela da soli, stabilendo loro canoni, fissando loro gerarchie. Noi siamo stimoli: suscitiamo piacere, amore, grandi opere. Nel migliore dei casi ci chiamano muse, con tanto di aggettivo possessivo: la mia musa».

Secondo lei maschi e femmine pensano cose diverse su Eros e Amore?

«Assolutamente sì. Ma per quieto vivere fingiamo spesso, ancora oggi, di vederla quasi allo stesso modo. E non va bene».

Aveva letto su Repubblica l'articolo di Michela Murgia che suggeriva di prendere esempio dal ministro Peppe Provenzano, che qualche tempo fa aveva ritirato la partecipazione a un evento dove erano tutti maschi?

«Sì. Leggo sempre con piacere gli interventi di Michela Murgia».

Tuttimaschi è anche un hashtag e sta diventando un movimento. Lei lo sosterrà?

«Non so. Anche se i maschi facessero tutti come Provenzano, e ogni volta sedessero al tavolo dei relatori un po' di donne, comunque non avremmo fatto passi avanti decisivi. Temo la cooptazione più delle vecchie ottuse esclusioni».

La filosofa Luisa Muraro ha detto che il nostro è il tempo in cui è finito il dominio maschile sulle donne. Crede anche lei?

«Devo molto alle opere di Luisa Muraro, ho per lei una grande ammirazione. E sì, credo che il patriarcato sia davvero finito, ma un po' come è morto il Dio di Nietzsche. Il corteo funebre non accenna a smettere di serpeggiare, è tracotante come una sfilata militare e tirerà brutti tiri ancora per molto».

Le sarebbe piaciuto essere un uomo?

«In altre epoche probabilmente sì. Oggi no. Essere donna è una grande avventura e una straordinaria opportunità. Lo sarà sempre di più. C'è tutto un mondo da reinventare. Chissà, gli uomini si adopereranno per diventare donne».

A me un po’ sarebbe piaciuto essere uomo. Sul lavoro non ho mai avuto problemi, ma ne ho avuti un sacco nel privato, quelli di molte donne: conciliare lavoro e maternità, per esempio, per tornare ai sensi di colpa e a Elena. È un tema che la interessa?

«Certo. Realizzarci per la mia generazione ha significato fin troppo spesso conquistarci la stessa forma di vita che i maschi si erano tradizionalmente attribuiti tenendoci in margine a fare le madri di famiglia. Salvo poi scoprire che quella forma di vita non ci contemplava e che una sua pallida imitazione ci era possibile solo accettando vecchie e nuove subalternità. Quel circolo vizioso dura ancora e ci frustra e ci rende infelici. Ne ho scritto con esiti diversi. Ma il libro su questo tema che mi ha impegnata di più è La figlia oscura».

Secondo lei ci sono posti nel mondo in cui le donne sono capite e valorizzate più che qui? E quali, nel caso?

«Mi permetta di non condividere la sua formulazione. Noi non dobbiamo essere capite ma capirci, non dobbiamo essere valorizzate ma valorizzarci. Pretendere riconoscimenti all'interno delle gerarchie maschili di valore è ancora una forma di subalternità. Perciò, un po' provocatoriamente, mi viene da dire che, malgrado le apparenze, non credo ci siano Paesi che, almeno in questa chiave, fanno molto meglio di noi. Ce ne sono invece parecchi, in giro per il pianeta, che fanno assai peggio».

Oggi, mentre mi risponde, cosa la fa arrabbiare?

«La disumanità».

E cosa invece le piace tanto?

«La complessa, contraddittoria, appassionante, crudele, sregolata amicizia tra donne».

Cosa la ispira quando scrive?

«Sa che non ne ho idea? Anzi, temo che nessuno saprà davvero cosa succede nel nostro cervello quando miracolosamente la scrittura si avvia».

Durante il lockdown ha scoperto qualcosa?

«Che tutto può cambiare da un momento all’altro; che tutti gli esseri viventi sono esposti alla malattia e alla morte; che la candela è corta e basta un soffio; che la gioia di vivere va nutrita in ogni modo. Niente però, a pensarci, che non sapessi già».

Io nel lockdown, che ho trascorso con mia figlia e il mio gatto, mi sono legata profondamente al gatto e anche alla casa. Lei ha approfondito qualche relazione con animali, piante, umani, scorci di cielo, libri ritrovati?

«Ho dato un’attenzione più ossessiva del solito alle mie piante».

Quanto conta la natura per lei?

«Molto, oggi, ma pochissimo fino a una ventina di anni fa, quando la natura era un temporale, un tramonto, i fiori in boccio, un torrente, il mare. Poi ho imparato che ridurla a magnifico spettacolo è dimenticarsi di essere frammento tra frammenti di materia. Allora, come succede quando mi accorgo di essere disorientata, mi sono messa a studiare. Oggi penso che non prenderci urgentemente cura della natura significa non curarci di noi, della nostra sopravvivenza, del nostro piacere di stare al mondo».

Trova giusto mangiare carne?

«No, anche se, con un po' di disgusto, a volte lo faccio».

Ho letto che lei scrive sempre ma non ritiene così importante essere letta. Io invece lo trovo fondamentale, e mi sembra sempre che sia il lettore a finire il romanzo, che noti cose che nemmeno l'autore sapeva di voler dire. Anche oggi che ne ha milioni potrebbe fare a meno dei lettori?

«Devo correggerla. Non ho mai scritto da nessuna parte che ritengo di scarsa importanza essere letta. Anzi, lavoro molto a vincolare i lettori alla pagina, e a racconto finito, una volta decisa la pubblicazione, mi aspetto che il libro trovi non molti, ma moltissimi lettori. Poi, se non succede, pazienza. Ma per principio non pubblico libri così presuntuosi da ritenere inessenziali i lettori. Quelli, nel caso, sono un mio esercizio di scrittura e, in quanto esercizio, servono solo a me».

lo a volte non so cosa accadrà ai miei personaggi. Crescono e fanno da soli cose che non avrei immaginato. Capita anche a lei?

«Si, credo che capiti a chiunque scriva, anche a coloro che programmano minutamente lo sviluppo delle loro storie»

Il tempo in cui pubblicava I giorni dell'abbandono e vendeva poche migliaia di copie lo rimpiange? Ora vende milioni di copie, e mi sembra una condizione straordinaria ma anche paurosa. Come fa a difendersi da questo pensiero?

«Ho tracciato da sempre un confine netto tra me e la mia funzione di autrice. Oggi considerarmi altro da ciò che accade ai miei libri è per me un'abitudine mentale. Sicché cosa dire? Non rimpiango niente. Tener fede alle regole che mi sono data ridimensiona ogni straordinarietà e controlla le paure».

Ho conosciuto personalmente soltanto uno scrittore italiano da milioni di copie nel mondo, Umberto Eco. Lui era molto contento del suo successo internazionale, non ne era per niente vittima. Ma era un uomo, mi viene da dire. Ho l'impressione che le scrittrici abbiano una maggiore sensibilità al riguardo. Ancora quel dannato senso di colpa...

«Forse. Ma insisto: io sono contenta del successo dei miei libri. Il senso di colpa, bè, quando c'è, so da dove mi deriva: ci sono libri di donne - saggistica e narrativa - che meriterebbero ben più attenzione. È il timore che il tuo eccesso, oltre che dare, tolga».

Ora che viviamo tutti in solitudine e isolamento lei potrebbe fare una scelta controcorrente, un raduno mondiale di lettori, magari on line, per non correre rischi. Non le viene mai la pazza idea di sparigliare?

«Mi divertono le idee pazze, però solo se vengono dagli altri. È come se mi si proponesse un gioco e in genere, anche in momenti come questi, accetto volentieri di giocare, mi diverte. Ma quando la spinta a sparigliare viene da me, quando è una mia necessità, non mi diverto affatto, sono serissima, non spariglio mai per gioco».

Io ho una venerazione per Svetlana Aleksievich, l'ha mai letta? Aleksievich in La guerra non ha un volto di donna scrive che a interessarla non è soltanto la realtà che ci circonda, ma quella che è dentro di noi. «Non l’avvenimento in sé, ma quello che induce nei sentimenti. Possiamo anche dire: l'anima degli eventi». A lei interessa l'anima degli eventi?

«A me interessa ciò che chiamiamo la vita interiore, mia e di chiunque altro. Amo Aleksievich perché ci mostra che essa è l'unica teca che abbiamo per custodire i fatti, questo participio passato dove l'accadere s'è consumato, e ora per rianimarlo bisogna risvegliare la memoria, l’immaginazione, il linguaggio».

Mentre sto scrivendo, Aleksievich è l'unico membro dell'opposizione a Lukashenko non in carcere. L’altro giorno degli uomini mascherati hanno provato a entrare a casa sua. Temo molto per lei e chissà cosa sarà successo nel momento in cui quest'intervista, che io le mando il 12 settembre, sarà pubblicata. Svetlana Aleksievich, nonostante il premio Nobel, ha scelto di rimanere a vivere a Minsk, in Bielorussia. Forse immaginava quel che sarebbe potuto succedere e voleva esserne testimone. Se lei, Elena Ferrante, con la fama internazionale che ha, facesse un appello per richiamare l'attenzione sulla Bielorussia e i rischi che Aleksievch sta correndo forse potrebbe servire. Vuole farlo?

«Credo poco all'efficacia degli appelli. Ne ho firmato qualcuno, ne firmerò, ma poi mi vergogno, una firma non basta, l’impressione è che finisca tutto nel dimenticatoio in poche ore senza lasciare veramente segno. Forse ci comportiamo ancora come se ci fossero partiti robusti, schieramenti netti, la forza dei giornali e dell'opinione pubblica ai tempi della guerra fredda. Non è cosi… Io qui ora dico la mia. Mi pare che Lukashenko sia alla fine della sua pessima vita politica e mi auguro che si trovi subito il modo di farlo uscire di scena. Dubito che farà la sciocchezza di toccare una persona simbolo, una gloria nazionale e planetaria come Aleksievich.

Ma potrebbe invece essere più ottuso del previsto. Ha già fatto tutto il peggio contro le moltissime donne coraggiose che ogni giorno affrontano i suoi sgherri, mascherati e no. Ed è veramente insopportabile. Detesto con tutta me stessa lui e il diffusissimo modello di maschio oltranzista al potere che furoreggia in gran parte del pianeta, Putin in testa. Ma con questo? È sufficiente chiedere una firma? Non lo so, bisogna inventarsi altro, al più presto, in non poche occasioni storiche ne siamo state capaci. Per ora siamo spettatrici televisive impotenti, anche quando ci pare di poter avere un po' di voce in capitolo».

Non tira una bella aria nel mondo, né in America né da noi, per i diritti delle minoranze e per i diritti in generale. I suoi personaggi hanno attraversato il Sessantotto e credo anche lei. Si aspettava che il mondo andasse a destra invece che a sinistra?

«No, ma è stato un errore. Il mondo è tendenzialmente di destra, si sente al sicuro solo dentro una rete fitta di pregiudizi difesi col pugno di ferro. Cambiarlo è tutt'altro che facile e a differenza di ciò che giustamente, entusiasticamente, si pensa da giovani, richiede tempo, studio, lotta tanto paziente quanto permanente.

I partiti di sinistra in Italia non sono mai stati così poco attraenti, a parte qualche figura isolata, come Elly Schlein. La segue?

«Mi piace. Non punta a esercizi fatui di chiacchiera televisiva, è chiara e diretta senza facile immediatezza, sta coi piedi per terra ma ha immaginazione politica».

Lei in chi, o in cosa, spera?

«Faccio relativamente poca attenzione alle figure di volta in volta vistosamente sovradimensionate dai media. Mi piacerebbe invece riuscire a vedere un buon governo tutto femminile: un governo di donne colte, politicamente formate, ciascuna con almeno una competenza ad alta specializzazione, disposte a parlare poco e a fare molto, mediatrici abili ma dentro un perimetro oltre il quale si va diritto per la propria strada. Niente di che: donne medie come ce ne sono tante, basta con il carisma».

La letteratura però è viva, come sempre nei momenti di grandi crisi. Sembra anche a lei?

«Sì. Quando mi chiedono di parlare di scrittrici che amo, italiane e no, viene fuori un elenco così lungo che non so come cavarmela».

Lei legge su carta o in digitale?

«In genere leggo su carta ma quando sono in viaggio uso il kindle e non mi strappo le vesti: dopo qualche incertezza prevale la necessità di leggere e tiro avanti».

Un’altra autrice che amo, Elizabeth Strout, fino a poco tempo fa scriveva a mano: ci metteva anni a finire un libro. Ora è passata al computer anche lei. Conosce Olive Kitteridge, la sua eroina?

«Sì, che splendida invenzione è Olive Kitteridge».

E Annie Ernaux la legge? A me pare straordinaria. Ho conosciuto anche lei. Dura, un tipaccio. Strout invece è molta affabile, come Aleksievich. Non le manca potersi confrontare con chi fa il suo mestiere?

«Lo faccio, leggo molto. A volte penso che sarebbe bello uno scambio di mail, e chissà, probabilmente succederà: con Ernaux, con Strout, con Aleksievich, con chiunque qui e altrove scriva e rifletta sullo scrivere. Mi piace il contatto attraverso la parola scritta, mi fido poco della mia oralità. Preferisco continuare così, come succede per esempio in questo scambio per mail che per comodità chiamiamo intervista. Tendo a evitare, probabilmente, di apparire dura, affabile o altri aggettivi sui quali poi starei a tormentarmi per giorni chiedendomi: io affabile, io un tipaccio. Dove ho sbagliato, perché sembro ciò che non sono?».

Qual è il libro che l'ha più turbata, da ragazzina? A me Il demone meschino di Sologub, che mi fece scoprire il male.

«Non so, forse L'uomo che ride di Hugo. Ci vidi un'opposizione insanabile tra interno ed esterno, con tutte le conseguenze che ne derivano».

A undici, dodici anni invece, lessi un libro di una scrittrice nata alla fine dell'Ottocento che si chiamava Pearl S. Buck: La buona terra. Ricordo che sottolineai una frase che non ho mai più dimenticato: Terribile cosa l'amore, se la sua vena non si diffonde pura e libera da cuore a cuore. Come se fosse una premonizione. Secondo lei sappiamo già tutto di noi, da bambini?

«Sì. Persino la tonalità della nostra scrittura, se non la tradiamo stupidamente, resta la stessa. Alla fine pare di essere vissuti più per avere delle conferme che per fare delle scoperte. Cosa che detta così sembra brutta. Ma io la sento consolante, specie se le illusioni dell’infanzia e dall’adolescenza si rivelano la tua verità».

Grazie Elena.
Buon lavoro.
Daria.