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Meena Kandasamy, ritratto della scrittrice come giovane moglie

Autore: Martina Neglia
Testata: Dinamo press
Data: 17 ottobre 2020
URL: https://www.dinamopress.it/news/meena-kandasamy-ritratto-dellascrittrice-giovane-moglie/

«Sono la donna che è la giovane scrittrice con le tasche piene di pietre pesanti» dice di sé Meena Kandesamy in “Ogni volta che ti picchio”, pubblicato da edizioni e/o. Sopravvissuta a un matrimonio violento, questo è il suo tentativo di riappropriarsi della sua storia facendosene narratrice.

Ogni volta che ti picchio di Meena Kandasamy, pubblicato in Italia da edizioni e/o nel maggio di quest’anno nella traduzione di Silvia Montis, nasce da una premessa: assumersi la responsabilità sulla propria vita, scrivere la propria storia. Non lasciare che qualcuno, sia questo anche un parente, un familiare vicino, una madre, ti escluda dal tuo proprio dolore e vissuto. Lo rimaneggi tirandone fuori una versione alterata, qualcosa che non è più tuo.

C’è un tassello che manca nell’edizione italiana e che in originale presenta meglio ai lettori il romanzo. In inglese infatti il titolo originale When I hit you è seguito dal sottotitolo – richiamo a Joyce – Or, A Portrait of The Writer as A Young Wife. Meena Kandasamy prima di essere stata una moglie è prima di tutto una scrittrice, ed è proprio attraverso la scrittura, la creazione di un proprio io letterario, che riesce a riprendere in mano le briglie della propria storia di violenza domestica, cristallizzandola sulla pagina; proteggendola dalla manomissione esterna e al tempo stesso proteggendo se stessa attraverso il distacco da un personaggio.

«Naturalmente spero che tutti capiscano quanto io sia restia a lasciare che la storia di mia madre diventi la Versione Standard, Autorizzata, Canonica delle disavventure del mio matrimonio. Per quanto io voglia bene a mia madre, il diritto di essere riconosciuti come autori di un’opera è qualcosa che, in quanto scrittrice, ho imparato a prendere molto sul serio». (p. 16)

Se da un lato la scrittura di questo romanzo diviene appiglio salvifico dell’autrice; dall’altro risulta una testimonianza di come il vortice della violenza domestica possa essere subdolo, innescarsi da meccanismi in grado di coglierti impreparata a prescindere dalla tua formazione, dallo stato sociale, da quanto saresti in teoria in possesso degli strumenti per prevederli.

Siamo nell’India dei nostri giorni, Kandasamy è una poeta, una scrittrice dalla penna brillante, una giovane femminista in grado di leggere le dinamiche che muovono il mondo e la società del proprio Paese. Lui è un professore universitario più grande di lei, ex guerrigliero maoista, illuminato dal sogno della rivoluzione e da un marxismo-leninismo mai messo in discussione e di cui confida di potersi fare portavoce. La protagonista senza nome di questo romanzo ci trasporta in una narrazione non lineare, in cui la incrociamo nella “Villa del Piacere” – residenza di una città costiera, lontana dalla famiglia di lei e dove si sono trasferiti per il lavoro di lui – in una temporalità in cui lei è già incastrata nel suo ruolo, ne ha vestito i panni, si è arresa a esso. («È solo una delle aspettative che devo prendere in considerazione nel mio ruolo di moglie perfetta. Ma in quanto attrice ovviamente, la cosa più importante è l’aspetto. […] ho l’aspetto di una donna che si è arresa», p. 23).

I salti cronologici ricostruiscono gli eventi della conoscenza prima e della continua privazione della libertà poi (l’accesso alle mail, l’impossibilità di usare i social, il taglio dei contatti telefonici), infine, prevedibilmente e senza scampo, la sopraffazione fisica e lo stupro ripetuto. Non c’è però una risposta alla domanda “perché?”, com’è stato possibile che una cosa del genere sia successa anche una donna della classe media, formata e colta. Restano i dubbi legati alla manipolazione emotiva esercitata da un uomo più grande e fermo nelle sue posizioni; al fascino subito da una ventiseienne convinta di poter imparare, assorbire qualcosa di più di ciò che ha conosciuto in un tracciato tutto sommato privilegiato per poi ritrovarsi prigioniera in una palestra di rigore. («Il mio matrimonio diventò un campo di rieducazione. Lui si trasformò in un insegnante, e io diventai la moglie-allieva che imparava da questo crociato del Comunismo»). Vorremmo poter interrompere il domino prima del burrone, comprendere in quale punto poterlo disinnescare; invece il caso forse resta irrisolto, senza una quadra definitiva.

La protagonista non riesce a evitare questo buco nero. Eppure Kandasamy non sembra tornare nella sua storia per scavarne al suo interno o per auto-commiserarsi; anzi si resta quasi spiazzati dal tono ironico di alcune pagine. La scrittrice non cerca una risposta, ma un modo di riaffermazione del sé con un mezzo negatogli dal marito durante la convivenza: il lavoro da scrittrice. È la parola scritta che si fa il terreno della sua resistenza ed esercizio di potere, anche nei pochi momenti di libertà fittizia, in cui il marito è assente e lettere su lettere, scritte e immediatamente cancellate, ad amanti ipotetici diventano una conferma a se stessa della possibilità di esistere ancora come donna e soggetto desiderante oltre ogni tentativo di annichilimento. Ogni volta che ti picchio non è quindi solo una storia di sopravvivenza – il cui finale è testimoniato dalla sola esistenza di questo libro e dal capitolo che lo apre –, ma soprattutto degli schermi contro una realtà esterna cruenta che un’identità riesce a crearsi.

Kandasamy sceglie però di muoversi sul fumoso confine che separa la fiction pura dal memoir, ricercando la potenza narrativa in alcuni tratti del proprio vissuto e soprattutto lasciando i personaggi nell’anonimato. Con questo espediente fa rivivere la violenza subita e al tempo stesso se ne distacca, spostandosi dal particolare e collocando qualcosa di prettamente intimo e personale in una dimensione universale. La tragica storia del suo matrimonio diventa così un’analisi sul trauma e l’abuso e una riflessione sul potere dell’arte e della creazione artistica.

Ogni capitolo è anticipato da un’epigrafe, una citazione di altre autrici e poete. Si susseguono una dopo l’altra Szymborska, Kamala Das, Elfriede Jelinek, Margaret Atwood, Anna Sexton. Tra prosa e poesia, donne di diversa provenienza geografica, vengano unite dall’aver raccontato in qualche modo l’amore, il matrimonio, l’essere donna. Come Zola Neale Hurston che nel suo I loro occhi guardavano Dio dice:

«Ora sapeva che il matrimonio non produce l’amore. Morto quel primo sogno, Janie diventò donna».

Kandasamy crea così una genealogia del suo percorso da autrice. Con una generosità prettamente femminile e femminista nel riconoscere l’eredità che altre artiste hanno lasciato e di guardare alla propria produzione come figlia non solo propria ma di tutte le parole di altre che sono venute prima, che hanno parlato prima, in un percorso di scambi e influenze reciproche che va preservato attraverso una lotta individuale e collettiva contro storici tentativi di insabbiamento («Donne che scrivono di donne in un modo in cui forse un giorno scriverò anch’io di me», p. 202).

Ogni citazione contribuisce ad aggiungere un tassello e ad arricchire l’esperienza di Kandasamy di un’eco che rompe il perimetro in cui è stata rinchiusa dal suo aguzzino per parlare di una violenza di genere che si ripete ai danni delle donne e trova terreno anche in spazi che non desideriamo: quelli di un comune sentire politico.

Carla Lonzi scriveva, decenni fa e da questa parte del mondo, di un proletariato rivoluzionario nei confronti del capitalismo ma riformista nei confronti del sistema patriarcale. Kandasamy, pur essendo anticapitalista e conscia di avere una coscienza politica ancora da educare, si confronta con l’oppressione di chi è invece sicuro di essere dalla parte giusta. «Devi imparare che una donna comunista viene trattata alla pari e con rispetto in pubblico dai compagni, ma a porte chiuse può essere presa a schiaffi e chiamata “puttana”». (p. 39). La sua dialettica col marito ripercorre i toni del dialogo tra Clara Zetkin e Lenin, parte con la possibilità di un dialogo tra le questioni di “classe” e l’integrazione con le istanze di emancipazione femminile per poi terminare comunque nella distruzione fisica e morale. Per l’uomo che ha sposato è prima una borghese; il suo femminismo un capriccio; in ultimo l’offesa peggiore da un ricevere da un marito di sinistra: «Non sei degna che io ti chiami compagna».

È facile sottrarsi alla condanna, riconoscere suo marito come un falso compagno, ribaltare l’offesa, ma la verità è che la testimonianza della scrittrice ci ricorda ancora una volta che definirsi compagni non è affatto una garanzia e di certo non lo è rispetto al sessismo e la lotta a tutte le oppressioni. Ogni volta che ti picchio non dà risoluzioni, ma scoperchia il tessuto relazionale di una donna che prova a ridefinirsi al di là dei limiti del ruolo di vittima, di donna che ha ceduto, che non ha saputo sottrarsi alla violenza se non poco prima del passo ultimo, cioè la morte, sfidando il giudizio sociale e mettendoci in guardia.