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Nel laboratorio cosmopolita di Enard

Autore: Alessandro Zaccuri
Testata: Avvenire
Data: 16 ottobre 2020

Non si scrive un libro come Zona (un'unica frase lunga quasi cinquecento pagine, scandita sul ritmo di un treno in movimento), non si concepisce una sinfonia di erudizione e sentimenti come Bussola, né un congegno narrativo come La perfezione del tiro, se non si ha dimestichezza con la poesia. Praticata e sperimentata, si intende, e non soltanto frequentata a rispettosa distanza. Quelli che abbiamo appena elencato sono, nel loro ordine di apparizione in italiano, i titoli principali dell'ormai ricca bibliografia di Mathias Enard, classe 1972, arabista cosmopolita, con duplice residenza a Barcellona e nella lingua francese.

Ogni volta che si è tentati di ammettere che sì, il romanzo ha ormai fatto il suo corso ed è tempo che ceda il passo ad altri generi di racconto, basta richiamare alla mente il nome di Enard e ci si trova a cambiare idea. Perché i suoi sono libri strepitosamente con temporanei e nello stesso tempo radicati in una tradizione che è, né più né meno, quella del romanzo tradizionale, declinata però con un'originalità e vastità di invenzione tali da rendere inconfondibile lo stile di Enard.

Adesso la pubblicazione italiana di Ultimo discorso alla Società proustiana di Barcellona aggiunge un ulteriore elemento di complessità alla sua opera, rivelando il laboratorio poetico (e dunque eminentemente, ma non esclusivamente linguistico) dal quale nasce la prosa di Enard. Il suo non è un caso isolato. Si pensi, per esempio, alla nuova edizione del fortunatissimo Stoner di John Williams appena uscita da Mondadori con l'inclusione della silloge poetica La necessaria menzogna o alle Poesie giovanili di Paolo Volponi curate da Salvatore Ritrovato e Sara Serenelli per Einaudi.

Nei versi di Enard (che e/o presenta nell'originale francese a fronte dell'eccellente traduzione congiunta di Lorenzo Alunni e Francesco Targhetta) è anzitutto la costruzione di un immaginario a manifestarsi con forza, un'evocazione dell'altrove che risulta evidente già nel ricorso a lingue e alfabeti differenti e nella descrizione di una geografia errante, i cui confini vanno dalla Russia al Portogallo, dai Balcani al Medioriente. La lunga sequenza su Beirut con cui si apre la prima sezione del libro, Fare concorrenza alla morte, ha il valore di una dichiarazione di poetica. «L'Europa è un vecchio continente / che non ama lo si lasci / e io, soprattutto, / non amo che mi si lasci / lontano», afferma tra l'altro Enard sullo sfondo della capitale libanese ancora segnata dalla guerra e già minacciata da «qualcosa», da un «rumore» che si gonfia «come la città al tramonto». Tutto il libro, in effetti, è sovrastato dal timore che «crolli così I l'edificio del niente» oppure che, in maniera speculare, «malgrado tutti i segni tracciati, / malgrado tutto le tracce, I non salveremo niente». Ci sono romanzi concentrati in un'immagine («Siamo sempre sorpresi dal peso delle armi / quando le prendiamo in mano») e ci sono scarti deliberati, come quello per cui l'Ultimo discorso evocato dal titolo è preceduto dall'inabissamento nella Barcellona più degradata e corrotta. È una meditazione sulla parola, questa condotta da Enard nella consapevolezza che esiste «un rifugio dove la lingua non può entrare davvero» e che il cuore non può toccare «ciò che il corpo ignora». In questo clima di accentuata inquietudine spirituale («Troneggia nel cielo, / questa Parola / e mai nessuna soglia valica») rimane aperta la possibilità di un inseguimento della realtà che percorra un «lungo cammino di mappe e di preghiere di bambino», «dove s'inventano fronti visi e croci dove appaiono tre rocce in fondo al paesaggio, le stigmate e la fede». E dove, come sempre accade nelle tradizioni mistiche, l'esperienza dell'invisibile si esprime la lingua universale della passione: «Il viaggiatore non conosce il viaggio / più dell'amante / le labbra dell'amata».