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Ribelle, poco rassicurante ma amico fedele: ecco l'investigatore che mi ha imprigionato

Autore: Massimo Carlotto
Testata: La Stampa - TuttoLibri
Data: 14 novembre 2020

Marco Buratti detto l'Alligatore compie quest'anno 25 anni. Un'età di tutto rispetto per un personaggio di carta che conta all'attivo nove romanzi, diversi racconti, un graphic novel e ora anche una serie televisiva. All'epoca fu accolto come una vera novità. Un investigatore senza licenza, ex cantante di blues, ex galeotto per aver scontato sette anni per un crimine che non aveva commesso, non era mai stato raccontato in Italia dove si erano sempre preferiti personaggi classici e rassicuranti, dal maresciallo della Benemerita al commissario, dal magistrato all'avvocato ficcanaso. (Solo Scerbanenco, nel 1966, aveva osato far indossare i panni del detective a Luca Lamberti, medico radiato dall'ordine per aver praticato l'eutanasia). Ero sempre stato affascinato dalle possibilità del romanzo di genere di esplorare la realtà, di usare il crimine come scusa per raccontare territori, ambienti, spaccati sociali, inquadrandoli in un tempo storico preciso. Ma trovare il personaggio giusto sembrava un'impresa complicata. Non volevo avvalermi di divise e la figura dell'investigatore privato in Italia era altrettanto poco allettante. Poi, un giorno, incontrai un amico avvocato che mi confidò di aver incaricato un suo cliente, noto pregiudicato, di raccogliere certe informazioni nell'ambiente dei rapinatori di banche, utili a far assolvere un imputato si dichiarava innocente. Erano i primi anni in cui la riforma del codice penale introduceva la possibilità di investigare a fini difensivi.

Fu in quel momento che compresi che potevo iniziare a ideare un personaggio seriale irregolare e ribelle, in grado di permettermi di percorrere una strada del tutto personale nel panorama italiano. Non volevo però che rispecchiasse il cliché del solitario senza macchia e senza paura ma fosse un uomo con le sue fragilità, che conosceva la sofferenza, rifiutava armi e violenza e credeva nell'amicizia. Gli affiancai subito due amici: Beniamino Rossini e Max La Memoria. Il primo era la versione romanzata di un vero bandito con una fedina penale lunga un chilometro, ma un cuore e un'etica «altra» che valeva la pena raccontare. Il secondo invece era inventato ma non troppo, un reduce degli anni '70. Uno di quelli che dalla politica e dalle utopie era rimasto scottato ma non aveva rinunciato a sognare e gli era rimasto il pallino di spiare il potere locale e di archiviare le notizie più interessanti. Mi serviva anche un sottogenere con cui giocare, divertirmi a tradirne gli stilemi, e scelsi senza indugio l'hard-boiled. Ricordo la mattina in cui salii su un treno diretto a Roma per andare a presentare il progetto a Sandra Ozzola e a Sandro Ferri, i miei editori. Le Edizioni E/O avevano pubblicato da poco il mio primo romanzo, Il fuggiasco, non avevano ancora una grande esperienza nel genere ma come sempre, erano curiosi, disponibili, attenti a visionari, qualità che rendono grande una case editrice. E così nei 1995 uscì il primo della serie: La verità dell'Alligatore, ambientato nelle paludi padane. Da quel giorno fui costretto a condividere l'Alligatore (e i suoi soci) con i lettori che se ne appropriarono,ognuno con il proprio punto di vista, ma senza potermi disinteressare del loro parere. Al momento ero frastornato, poi ho capito che altro non era che la giusta legge della serialità: chiedi al lettore di appassionarsi al personaggio e di continuare a leggere i romanzi che ne raccontano le avventure e di fatto non è più «solo» tuo.

È capitato che per sette anni non abbia scritto e pubblicato romanzi dell'Alligatore. Un giorno, alla libreria Minerva di Trieste, durante la presentazione di un titolo pubblicato con altra casa editrice, un signore si alzò, mi interruppe e disse: «Tu non puoi scrivere quello che vuoi. Una serie è un impegno nei confronti del lettore e tu non lo stai rispettando». Aveva ragione. II problema era che non ho mai lavorato a partire dai personaggi ma dalle storie e non sempre sono adatte. Fortunatamente ne avevo un paio di buone nel cassetto e rimediai. Quando il personaggio era ancora nella fase progettuale, (pagine di appunti di un quaderno a righe made in China con la copertina nera rigida e il bordo rosso) la vera difficoltà fu creare una prospettiva di futuro ovvero una duttilità nell'adattarsi alle trasformazioni. Ho sempre amato molto il romanzo americano ma non ho mai creduto nei personaggi sempre uguali a loro stessi, immutabili nell'età anagrafica, negli affetti, nei gusti, nelle idee. Mi interessava creare una serie dove i miei invecchiassero e affrontassero il mondo con occhi sempre diversi. In questi 25 anni la società italiana ha subito trasformazioni importanti, il crimine poi è stato in grado di comprendere la portata della globalizzazione dell'economia, creando mercati paralleli. Per stare al passo, l'Alligatore è cambiato profondamente e io con lui, modificando anche il modo di concepire e costruire le storie. Viaggiare tra librerie, biblioteche e festival, in Italia e all'estero, mi ha permesso di conoscere autori e lettori. E ogni incontro ha lasciato il segno in termini di esperienza. Quando incontrai Jean Claude Izzo compresi l'importanza di inserire nelle trame elementi d'inchiesta raccolti con lo strumento del giornalismo investigativo. E anche in quell'occasiono il sostegno delle Edizioni E/O fu determinante, aprendo, anzi spalancando le porte al Noir Mediterraneo. Una rivoluzione nel modo di concepire il romanzo, che però mi ha permesso di raccontare storie di cui addirittura si negava l'esistenza e di creare una rete di confronto e collaborazione con altri scrittori. I lettori mi hanno sempre sostenuto in queste scelte anche se talvolta il rapporto è stato conflittuale. D'altronde l'Alligatore è un uomo profondamente ossessionato dalla verità che ricerca a tutti i costi e senza porsi il problema di oltrepassare la soglia. Nell'ultimo romanzo, La signora del martedì, Buratti appare, senza essere mai citato, in un ruolo secondario. È «l'uomo con gli stivali texani», alle prese con sentimenti complessi e amori impossibili, in una storia molto diversa da quelle che lo hanno visto protagonista. L'intento era di svelare alcuni aspetti intimi che Buratti finora aveva raccontato attraverso il blues, la malinconica e struggente colonna sonora dei romanzi. Come quel vecchio brano di James Carr: «Sul lato buio della vita è sempre lì che ci incontriamo, nascosti tra le ombre. Viviamo nell'oscurità per nascondere i nostri torti».