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Noi calabresi, come erbacce magnifiche e vitali

Autore: Francesco Musolino
Testata: Gazzetta del Sud
Data: 4 dicembre 2020

Le parole possono confortarci, allontanare la notte e non fare sentire mai più soli. Ma la cultura, l'impegno civile, oltre a seminare bellezza ed etica, possono – devono – porsi l'obiettivo di migliorare il mondo e sanarne ferite. La notte del 22 novembre una tragica alluvione ha colpito Crotone. Alla disperazione sono seguite raccolte fondi da tutta Italia per raccogliere fondi a supporto degli alluvionati e per la ricostruzione della città. Fra le tante iniziative, spicca quella del fotografo e scrittore Maurizio Fiorino, figlio di Crotone (1984) che «dopo un'infanzia turbolenta in Calabria e gli studi a New York», oggi vive fra Roma e Milano. Ma in Calabria, proprio a Crotone, sono ambientati i suoi romanzi, “Amodio” (2014), “Fondo Gesù” (2016) e “Ora che sono nato” (2019). Proprio in occasione dell'alluvione, Fiorino ha voluto pubblicare in e-book il racconto “Erbacce” (edizioni e/o, pp. 24, 2,99 euro) – sinora inedito in Italia e accompagnato dall'illustrazione di Federica Scalise – che racconta una delle periferie alle porte di Crotone, Fondo Gesù. Il ricavato della vendita verrà devoluto per la ricostruzione della città.

Interessante che il tuo immaginario da autore sia così fortemente legato alla Calabria. Come te lo spieghi?

«È un'ossessione, davvero. L'ho capito qualche anno fa, a New York, dove vivevo. Sei anni lì, poi entro al Metropolitan Museum, mi ritrovo davanti le statue greche e ho una sorte di sindrome di Stendhal. Sento di appartenere alla Calabria e di esserne posseduto. Recentemente sono stato a Scilla e ho scoperto la nostra chitarra battente, da quel giorno non faccio che vivere dentro quel suono. Abbiamo inventato il rock, la musica moderna, noi calabresi, e neanche lo sappiamo».

Perché questo titolo, “Erbacce”?

«È il prequel del mio secondo romanzo, “Fondo Gesù”. Stessi protagonisti, stessi linguaggio. Questo titolo, “Erbacce”, doveva anche essere il titolo di quel libro, invece è diventato un lungo racconto che è rimasto lì, fermo, 4 anni. Era apparso su una rivista, ma in lingua inglese. Aspettava l'occasione giusta per venire letto in italiano. E ho scelto questo titolo perché noi calabresi, spesso, siamo proprio come le erbacce: ci imponiamo dove non dovremmo, veniamo derisi, veniamo strappati, ma ricresciamo sempre, riusciamo a venir fuori pure da sotto l'asfalto».

La Calabria vista da lontano, come ti appare oggi?

«Maltrattata, dimenticata, non rispettata, usata come un bancomat. Vittima di se stessa e dei luoghi comuni, del giudizio, del pettegolezzo. La colpa è anche nostra, di noi calabresi, ma non solo. Soltanto la cultura può risollevarla, e non mi riferisco alla cultura della legalità: quella, da sola, non basta. Parlo di noi scrittori, artisti, musicisti, visionari. Siamo diversi dagli altri perché abbiamo questo background di sofferenza che ci portiamo dietro dal giorno in cui siamo nati, ma non dobbiamo considerarlo un limite. Anche perché solo chi è diverso può fare la differenza».