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L’ascesa di Hitler raccontata da Eric Vuillard in “L’ordine del giorno”

Autore: Filippo La Porta
Testata: Il Riformista
Data: 6 gennaio 2021
URL: https://www.ilriformista.it/lascesa-di-hitler-raccontata-da-eric-vuillard-in-lordine-del-giorno-186895/

In una libreria d’occasione – sono aperte se non si è zona rossa, andateci! – ho trovato uno strepitoso libretto uscito due anni fa, e di cui non mi ero accorto: L’ordine del giorno di Eric Vuillard (edizioni e/o), vincitore a suo tempo del premio Goncourt. Di che si tratta? Apparentemente è solo un resoconto dettagliato dell’Anschluss, l’unificazione voluta, e anzi imposta, da Hitler tra Germania e Austria nel marzo 1938 (qualche mese prima dell’invasione della Polonia e dello scoppio della Seconda guerra mondiale), ma si svela come intensa meditazione morale sulla Storia, come una acuta disamina del nazismo e come esercizio di finissima analisi psicologica. Mostrando inoltre la abilità dell’autore, che è anche regista cinematografico, nel mettere in scena gli eventi (una messinscena barocca e visionaria, benché basata su dettagli reali). Un saggio concentrato di storiografia, dove la immaginifica e “teatrale” prosa dell’autore, ben tradotta da Alberto Bracci Testasecca, ci permette di andare oltre la mera cronaca degli eventi e di afferrare una verità meno visibile e meno in superficie. Insomma, è uno di quei componimenti misti di storia e invenzione che Manzoni, dopo aver scritto i Promessi sposi, volle criticare per tutta la vita. Però stavolta di inventato non c’è nulla: ci sono invece le analogie nascoste che Vuillard – poeticamente – trova in quegli eventi, e il rigoroso piglio morale con cui intende interpretarli. L’incipit è brechtiano e memorabile. Ventiquattro signori – «ventiquattro soprabiti neri, marroni o cognac, ventiquattro paia di spalle imbottite di lana, ventiquattro completi a tre pezzi, e lo stesso numero di pantaloni con le pinces e l’orlo alto» – nel febbraio del 1933, poco prima delle elezioni che consacrarono la vittoria dei nazisti, sono convocati da Göring, presidente del Reichstag, in un palazzo che sembra un “castello stregato”. Sono i maggiori imprenditori tedeschi. Hitler vuole incontrarli per avere un finanziamento: se vincerà «saranno le ultime elezioni per i prossimi dieci anni» (Göring aggiunge sorridendo «anche per cento»), e sarà posto termine alla «instabilità del regime». Vuillard annota che, d’altra parte, «la corruzione è una voce insopprimibile del budget delle grandi imprese e ha vari nomi: lobbyng, strenna, finanziamento ai partiti». Ma per capire «il fondo di eternità» di quell’incontro è interessante scorrere i nomi dei ventiquattro signori lì riuniti, con i loro monocoli e giganteschi sigari, o meglio i nomi delle aziende che rappresentano: Bayer, Agfa, Siemens, Allianz, Telefunken… «Li conosciamo con questi nomi, e li conosciamo anche molto bene. Sono fra noi e intorno a noi. Sono le nostre automobili, le nostre lavatrici, i nostri detersivi, le nostre radiosveglie, l’assicurazione sulla casa, la pila dell’orologio». Qui Vuillard sfodera un marxismo da manuale (il marxismo ha toppato una quantità incredibile di cose ma su questo è irreprensibile!). Mi permetto di correggere Brecht su un punto, quando dice che gli orrori del nazismo sono figli degli affari che col nazismo si fanno. No, quegli orrori sono figli di una visione del mondo paranoica e delirante, ma certamente quella visione del mondo andò al potere grazie agli affari che con essa potevano farsi: quelle stesse aziende presero in appalto manodopera praticamente gratuita a Mauthausen e Dachau, mentre la IG Farben gestiva ad Auschwitz una fabbrica gigantesca. I dialoghi tra Hitler e Schuschnigg, il cancelliere austriaco convocato all’improvviso in Baviera, e lì recatosi vestito grottescamente da sciatore, sono impressionanti. Hitler, che annuncia l’imminente Anschluss, lo tratta come uno zerbino, lui – terrorizzato, con le mani sudaticce – protesta timidamente che il suo Paese ha sempre avuto una politica tedesca, che Beethoven fu adottato da una famiglia austriaca, etc., poi balbettando cede vergognosamente all’ultimatum (dopo il carcere e la guerra il cattolicissimo Schuschnigg diventa cittadino americano e insegnerà all’università, continuando forse a chiedersi “chi sono?”). Solo a un certo punto Hitler accenna a un sorriso, e così commenta Vuillard: «Quando i gangster o i pazzi furiosi sorridono è difficile resistere, si ha voglia di farla finita con la fonte delle proprie disgrazie, si desidera la pace». Avete sempre pensato che nella mitologia, in buona parte fasulla, che la Germania nazista alimentava incessantemente su di sé, ci fosse però un punto incontestabile: la straordinaria efficienza della sua macchina militare. Ebbene questo libro, interamente fondato su una documentazione puntuale, ci informa che la macchina bellica della gloriosa Wehrmacht si impantana lungo la strada difficile per Linz: un ingorgo di Panzer, un esercito in panne! Così, «sotto una luna glaciale» i tank vengono trasportati su piattaforme e potranno raggiungere Vienna, come «impianti da circo», per celebrare l’Anschluss – tra purghe, arresti, uccisioni, finti referendum – con la «rassegnazione affascinata delle democrazie». Il capitolo più visionario è quello su Hollywood, dove si potevano trovare in un immenso deposito tutti i vestiti smessi dell’umanità (dal peplo romano al caffetano, dal drappeggio babilonese al sari colorato delle donne orientali), e dove tutto è finto: il carbone sul colletto del minatore, il sangue sul collo del condannato… Lì si trovavano, nel 1938, anche i vestiti dei nazisti! Più veri che in natura, repliche perfette cui non manca un bottone, ma ci sono anche i finti strappi: «La guerra era già sugli scaffali dello spettacolo». La Storia diventa spettacolo, diremmo oggi in tempo reale: una finzione con effetti però ben reali (e devastanti), una tragicocommedia piena di strepito e furore, che si ripete in fondo sempre uguale e che non significa nulla.