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Lottare sempre per non tradire la memoria

Autore: Raffaella De Santis
Testata: La Repubblica - Robinson
Data: 22 gennaio 2021

La sera le piace distrarsi leggendo poesie. Da Paul Celan ha preso il verso che dà il titolo al suo nuovo libro: Ognuno accanto alla sua notte (e/o). Lia Levi ha il dono di non parlare mai in astratto. Se nomina il male, anche quello assoluto della Shoah, lo fa calandolo nelle storie individuali: «Dentro il dolore collettivo c’è il dolore di ognuno di noi», dice, spiegando di volerli raccontare entrambi, il dolore che unifica l’umanità e quello legato alle “sfaccettature della vita”. A fine intervista, quasi come suggello, torna Celan: «Stanno divisi nel mondo, / ognuno accanto alla sua notte, / ognuno accanto alla sua morte». In verità dei suoi dolori privati la scrittrice parla con pudore, l’imbarazzo di chi sente di essere stato in fondo fortunato, consapevole che «il destino getta i suoi dadi come vuole». Lia Levi ha 89 anni, al telefono una voce limpida, allenata a parlare ai ragazzi nei tanti incontri a cui partecipa nelle scuole. Ha un’agenda fitta di appuntamenti e benedice Internet che le permette di collegarsi a distanza superando le limitazioni imposte dal covid. Quando la chiamo è felice, «domani andrò a fare il vaccino», e sfodera la vitalità di chi è abituato a guardare avanti. Nel nuovo romanzo intreccia tre storie, «tre frecce che convergono verso il 16 ottobre 1943», il giorno del rastrellamento nel ghetto di Roma: nella prima un commediografo ebreo deve scegliere tra la politica e l’amore, nella seconda due innamorati – lui figlio di un Fiduciario del Fascio, lei ebrea – sfidano la sorte pur di vedersi, e infine l’ultima, che ha per protagonista un giovane attivo nella lotta clandestina, uno dei pochi a capire che si stava per aprire un baratro.

La Comunità ebraica romana sottovalutò il rischio?

«Peccarono di ottimismo. Pensavano fosse impossibile che i tedeschi infierissero sulla città del Papa. C’è stata insipienza nel non dare credito a nessuno dei segnali forti che arrivavano, sia a causa di un’inadeguatezza assoluta della classe dirigente, sia per quieto vivere. Molti sperarono che si potesse continuare a mediare, ma quando si combatte tra la vita e la morte non ha più senso mediare».

Nel 1938, l’anno della leggi razziali, lei aveva sette anni. Nell’ottobre del 1943, undici. Come ha vissuto quei momenti?

«Mio padre era impiegato in una compagnia di assicurazioni a Torino, venne licenziato. Ci trasferimmo prima Milano, poi a Roma, dove iniziò a lavorare clandestinamente in un piccolo ufficio. Ricordo bene l’arrivo dei tedeschi nella Capitale, i miei genitori che cercavano in casa l’oro, io e mia sorella che li aiutavamo a frugare nei cassetti: catenine, medagliette, ciondoli. Ho impressa l’immagine di mia madre con un braccialetto in mano che chiede: ma sarà oro? Aveva paura che fosse solo placcato. Due dopo, come ho raccontato in Una bambina e basta, mi ha portata in un convento di suore, dove mi è stato cambiato il nome».

Dai suoi racconti sembra che le donne sappiano affrontare meglio il pericolo.

«Mia madre ci ha salvato la vita. Mio padre era intelligentissimo ma incapace di prendere una decisione pratica. In linea di massima gli uomini teorizzano, le donne dicono cosa mangiamo domani e dove dormiamo. La parte pratica, tenere le persone in vita, è affidata a loro. Mia madre era laureata in legge, l’unica laureata donna a Torino nel 1928, ma non aveva mai fatto veri lavori, a parte una rubrica di consigli sentimentali su un giornale, a quei tempi era così».

Ha però debuttato tardi, quasi a sessant’anni, come mai?

«Da bambina avevo scritto una lettera indirizzata a me stessa: “Cara Lia, ricordati che da grande devi diventare una scrittrice”. Non era un auspicio, era un dovere. La conservo ancora. Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Mi frenava però un senso di rimorso per aver vissuto la tragedia della mia gente nell’incoscienza infantile, spavalda, come lo sono spesso i bambini. Di fronte all’irraccontabile non me la sentivo di scrivere il mio libro, mi sembrava una mancanza di rispetto. Quindi ho lasciato passare tantissimo tempo, mi sono sbloccata solo negli anni Novanta».

Che cosa era cambiato?

«La dirigenza comunitaria prima di tutto. Non c’era più la stessa sintonia. Ma ha inciso soprattutto l’indignazione verso un atteggiamento politico privo di memoria. Mi resi conto che l’Italia si metteva dalla parte delle vittime, dimenticando che eravamo stati dalla parte dei complici».

Per molti anni ha fatto la giornalista, si trattava di un ripiego?

«Tutt’altro, mi piaceva, in realtà ero poco incline alla vita solitaria dello scrittore. Avevo anche scritto due sceneggiati radiofonici, firmandoli con un altro nome perché mio marito si vergognava, gli sembrava non fosse compatibile con la mia attività giornalistica a Shalom, un giornale politico (ndr, il marito è Luciano Tas, la cui vita è narrata in Questa sera è già domani, e/o).

**Le sembra che il razzismo stia riaffiorando?*

«Oggi riguarda soprattutto gli stranieri, ma è sempre esistito, è un male dell’umanità. Allora però era lo Stato ad essere razzista, una grande differenza. In ogni caso non dobbiamo considerare la democrazia come acquisita. Bisogna sempre darsi da fare per difenderla, per arrivare un minuto prima e non un minuto dopo».

La memoria serve anche a questo?

«Qualcuno ha detto che la memoria è l’eterno presente di tutto ciò che ha senso e valore. Solo rapportandoci al nostri passato possiamo costruire l’oggi. La migliore architettura contemporanea non esisterebbe senza le grotte in cui gli uomini si riparavano».