Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Hawaii - Qui non è il paradiso

Autore: Melania Mazzucco
Testata: La Repubblica - Robinson
Data: 13 febbraio 2021

Una camicia colorata con le palme, tavole da surf, ghirlande di fiori, vulcani, hukulele, belle donne dalla pelle bruna che danzano sorridendo. Più o meno a questo in Occidente si è ristretto l’immaginario “hawaiano”. L’arcipelago al centro dell’Oceano Pacifico – quattromila chilometri dalla California, quattromila da Tahiti, seimilaseicento dal Giappone – oggi cinquantesimo stato dell’Unione, è stato rivelato al mondo da Jack London (affascinato fin dal 1904, vi tornò con lo Snark e divenne “hawaiano” di adozione), che ha contribuito involontariamente al loro snaturamento col successo dei suoi libri sulle Hawaii. Note perché nella rada di Pearl Harbor, a Oahu, si consumò l’attacco che trascinsò gli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale, sono il paradiso del turista e crocerista americano – condividendo spossessamento e destino degli altri paradisi esotici, dalla Polinesia francese alle Maldive, dalle Fiji alle Seychelles. Solo di recente, grazie alla nascita hawaiana di Barack Obama, si è compresa qualche peculiarità della vita contemporanea delle isole – crogiolo di razze e culture. A quella kanaka maoli aborigena, che subì una delle ultime colonizzazioni del XX secolo, con relativa spoliazione culturale, marginalizzazione sociale, lavoro forzato nelle baleniere e poi nelle piantagioni di canna da zucchero, si sono infatti sovrapposte robuste ondate migratorie dal Giappone e dalle Filippine, che hanno generato identità plurali, via via più orgogliose delle loro ascendenze.

Così negli ultimi decenni un agguerrito drappello di scrittrici hawaiane è riuscito a penetrare nel mainstream della letteratura americana, pubblicando con importanti case editrici della costa Est, e vincendo premi nazionali. Talvolta diventando bandiera delle rivendicazioni del popolo del Pacifico, talvolta venendo accusate di strumentalizzare il folclore locale per riproporre stereotipi paradossalmente razzisti. Da noi sono note Kiana Davemport (di cui in italiano è stato tradotto Figlie dell’oceano) e Kaui Hart Hemmings (Eredi di un mondo sbagliato, Le possibilità dell’amore e Paradiso amaro, divenuto un bel film di Alexander Payne), mentre si possono leggere solo in pidgin e in inglese le opere della poetessa Lois Ann-Yamanaka e di Kristiana Kahakauwila, Mary Kawena Pukui (autrice peraltro di un dizionario hawaiano/inglese) e Brandi Nalani McDougall, kanaka-cinese-scozzese, specialista di studi indigeni e teorica dell’estetica kaona, che mediante le pratiche allegoriche/simboliche riafferma il potere delle storie e delle genealogie indigene per la decolonizzazione delle Hawaii.

Se le introduco prima di Kawai Strong Washburn, autore del romanzo Squali al tempo dei salvatori appena uscito per e/o nella traduzione di Martina Testa, sempre abilissima nel restituire le sfumature anche gergali dell’originale, non è solo perché a queste autrici nei ringraziamenti rende omaggio come ai suoi predecessori (tutte donne, ma in italiano non si usa il genere femminile del termine, e ciò stesso impone una riflessione) che “conservano la verità della nostra terra e le danno voce”. Ma perché il contesto e il messaggio del romanzo ne rappresentano il motivo di principale interesse. Kawai Strong Washburn, del resto, non hawaiano ma nato e cresciuto sulla costa orientale di Big Island, è da decenni attivista nella lotta contro il cambiamento climatico, sensibile alle battaglie civili, politiche e sociali degli ultimi tempi. E non a caso lo scrittore che lo ha lanciato è il giamaicano Marlon James, vincitore del Booker Prize del 2015 con l’epico e fluviale Breve storia di sette omicidi.

Gli squali del titolo sono l’aumakua, ancestrali divinità protettrici delle Hawaii. La famiglia protagonista della storia, costretta dalla povertà, deve emigrare a Oahu: il giorno dell’ultimo giro in barca nella nativa Big Island gli squali salvano dall’annegamento Nainoa, il figlio mezzano, investendolo dell’aura mitica di redentore della sua gente e delle isole. Sul bambino si rovesciano le aspettative non solo della famiglia (i genitori strappano a fatica di che vivere, relegati negli squallidi sobborghi, lontani dalle spiagge dei turisti felici) ma di un popolo intero – emarginato, sradicato, escluso dal sogno americano e dalla ricchezza materiale che ne è unica incarnazione. La vita di Augie, Malia, Dean e Kaui sarà stravolta da questo “dono” magico e la benedizione incompresa e usata nel modo sbagliato (garantirà ai genitori il denaro per mandare i figli a studiare sul continente, di fatto esiliandoli) sarà quasi capace di annientarli. Ma alla fine di un doloroso calvario di riconciliazione con la loro cultura originaria, che unisce uomini, natura, spiriti e dei nel ciclo infinito del cosmo, li accompagna verso la salvezza.

Tutto ciò narrano, alternandosi, le cinque voci di padre, madre, fratelli – ognuno col suo carattere e il suo linguaggio. Crudo e volgare quello del fratello maggiore, fallito campione di basket, acido e ironico quello della minore, genio dell’ingegneria travagliata dalla sua omosessualità, elementare quello del padre hawaiano-filippino, muscoloso addetto ai bagagli dell’aeroporto, lirico e in comunione con il mana quello della madre, cassiera in un supermercato e poi conducente di bus, mistico e allucinato quello del salvatore, che si distrugge nel tentativo di scoprire il segreto della scintilla della vita. Intorno a loro le ombre della storia (l’abbandono della coltivazione della canna da zucchero e dell’agricoltura tradizionale, l’urbanizzazione, il turismo di massa), i fantasmi degli antenati, l’oppressione sociale e razziale, la distorsione del sogno americano.

L’autore, ingegnere informatico, è al suo esordio, e ancora si percepisce la lezione delle prestigiose scuole di scrittura frequentate a Tin House e Bread Loaf; il realismo e l’arcano si giustappongono talvolta senza fondersi, ma la visione è vigorosa e il significato di questa storia, basica e gommosa come il kalo, capace di scuotere le nostre pigrizie. Sarà una lettura istruttiva per ogni haole (bianco) che voglia cercare di capire le cose da una prospettiva diversa, e non smetta di interrogarsi su come costruire il mondo futuro nel quale vorrà vivere.