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Mathias Énard, l’ultimo scrittore europeo

Autore: Davide Coppo
Testata: Rivista Studio
Data: 7 aprile 2021
URL: https://www.rivistastudio.com/mathias-enard-intervista/

Se non avessi cercato su Google la faccia di Mathias Énard qualche mese prima, incuriosito di dare un volto alla voce che avevo a lungo letto e amato, non avrei saputo immaginarmela. O forse avrei potuto inventarla disegnando un cadavre exquis, con ogni parte del volto completamente diversa da quella vicina come tratti, forma, carattere. Questo perché le voci che Mathias Énard padroneggia nei suoi romanzi (da distinguere brevemente nei due maggiori, Zona e Bussola, per cui si può usare la parola capolavoro senza troppi pensieri, e i minori, più corti e appuntiti, tutti con una forte identità: a partire da Parlami di battaglie, di re e di elefanti, appena ripubblicato da e/o, ucronia deliziosa anziché distopica che immagina un Michelangelo a corte non del Papa bensì del Sultano di Costantinopoli; per arrivare alla storia di guerra e d’amore di un cecchino in quella che ricorda a tutti gli effetti la guerra civile libanese) sono tutte con un’identità chiara. Molti caratteri che stanno nello stesso volto, però, perché ciò che fa stare Énard sopra la media degli scrittori a lui contemporanei è la capacità di aver creato una poetica che unisce tutte le sue opere. Questa poetica è il Mediterraneo come spazio-movimento, per usare un’espressione di Braudel, ponte che unisce Oriente e Occidente. Non è orientalismo, quello che fa Énard, è molto spesso politica: è politica mostrare le comunanze tra Europa e Medio Oriente, ma anche quella che mostra, come fa in Zona, il suo libro più complesso e potente, la violenza vertiginosa che qui ha sempre abitato, dalla Battaglia di Lepanto alla Risiera di San Sabba.

Torna in una nuova edizione, in Italia, Parlami di battaglie, di re e di elefanti. Rileggendolo ho notato una frase in particolare che mi sembra simbolica di tutta la tua letteratura. La pronuncia una danzatrice araba andalusa, nata e cresciuta a Granada ma esiliata a Costantinopoli dalla Reconquista. Si riferisce agli uomini che verranno nel (suo) futuro, e dice: «Troveranno bellezza in battaglie terribili, coraggio nella viltà degli uomini». Anche la tua tua scrittura è una ricerca di bellezza nella rovina e nella violenza.

È un punto di vista baudelairiano, ma è vero. Parlami di battaglie e Zona hanno dei collegamenti, perché sono stati scritti più o meno nello stesso momento. Per me la letteratura è un modo di trovare forse non bellezza, ma comunque costruire un’estetica con la violenza e la storia.

A proposito di storia: in un’intervista che hai fatto con Granta qualche tempo fa hai citato Sebald, e questo suo modo di creare una rete tra storia e finzione, fatto di aneddoti ed episodi. È stato sempre un modello?

Sempre no, perché l’ho letto tardi, intorno al 2005. Ma è vero che per me Sebald non è soltanto un modello: mi ha mostrato molti testi, come La passeggiata di Walser, e mi ha fatto leggere Stendhal, che avevo già letto ma quando ero molto giovane. Mi ha fatto scoprire quadri, artisti… Sebald è una fonte. È affascinante perché sa mescolare dei punti di vista, degli elementi, tutti letterari e tutti artistici ma che non saprei come collegare senza di lui. Cioè il collegamento tra una tela di un pittore olandese del XV secolo e l’Inghilterra del secolo scorso non si vedrebbe normalmente, ma lui li vede.

Non sono storie legate tra loro in modo per così dire naturale: è lo scrittore che crea questa rete. È una celebrazione dell’invenzione, ma anche un’impostura.

È vero. Io vedo i collegamenti tra cose diverse, ricordo ad esempio quando avevo trovato un collegamento in Zona, quando Francis, il protagonista, va al bar, sul treno, e beve una birra, una Nastro Azzurro. Sulla bottiglia c’è l’immagine di una barca, una barca vera, reale, la Nastro Azzurro appunto. E da lì ho potuto raccontare la storia di quella barca, e ho usato quella storia per andare altrove. Questi collegamenti sono miei, è come una rete di informazioni, di immagini, che posso utilizzare. Questo è molto sebaldiano.

Il tema che nella tua opera forse si alza più in alto di tutti, soprattutto in Zona, è il confronto con il male. E se devo fare un altro riferimento, mi ricorda molto quello che fa Bolaño, quasi in ogni libro. È un male che osservi con fascino.

Con fascino e curiosità. Sono curioso di capire quello che non si capisce. Ma è vero che Bolaño per me è stata una grande influenza, l’ho conosciuto prima che morisse, nel 2003 a Barcellona. Anche se poi i miei romanzi non funzionano come i suoi. Per rispondere a questa domanda sul male mi viene da citare un’altra figura molto importante per me, Curzio Malaparte. Come lui vede tutti questi personaggi in Kaputt è simile a quello che faccio con Francis in Zona. Vedere senza capire. Guardare il male e capire che non capisci. È un po’ questo che succede in Zona. È vero che Zona si centra sul male più di altri, ma anche La perfezione del tiro, che è il mio primo romanzo. C’è anche questo interrogativo su che cos’è il male. E su com’è che quelli che lo fanno non siano coscienti di farlo. E su come la guerra trasforma tutto e tutti. Per questo è stato così importante uno scrittore come Malaparte. È vero però che quando scrivevo La perfezione del tiro stavo leggendo Bolaño.

Parlare di male implica anche un grande coraggio, una responsabilità di inventare.

La cosa bella della finzione è che puoi essere chiunque. Anche assumere delle voci che non sono tue. Come Francis in Zona, o come Franz in Bussola, o come quel macellaio della Perfezione del tiro. Questa è la possibilità del romanzo, e per me è fondamentale.

È un equilibrio difficile, tra invenzione e appropriazione culturale.

Guarda, io ho scritto un romanzo in prima persona in cui sono un giovane arabo. Non sono giovane, né arabo. Che sia un buon romanzo o no non c’entra. Ma la possibilità di farlo, questo è il punto. Chi mi può dire che cosa posso immaginare? Perché non potrei immaginare di essere una donna, domani? Tutto è aperto. Per me la letteratura è questo. Anche un animale. La letteratura è avvicinare, non mettere limiti tra un’esperienza che sarebbe altrimenti impossibile da raggiungere. La letteratura è il contrario del limite.

Un altro tema che si vede, stando su questo treno che attraversa tutte le tue opere, è quello delle rovine. La decomposizione delle civiltà.

Una malinconia, direi. È vero anche nell’ultimo romanzo, che non è ancora uscito in Italia, in cui cerco di capire come i nostri mondi stanno crollando.

L’Europa è una rovina, anche se non se n’è accorta?

Può darsi. Ma l’Europa è stata tante cose diverse. La parola stessa indica diverse cose. L’Europa politica è diversa dall’Unione europea. Ma anche dall’unione tra tutti questi prìncipi cattolici dei secoli scorsi. È uno spazio aperto. Per me il Mediterraneo è uno spazio che sta lì, una zona molto concreta, che si può vedere e toccare. Nell’immaginazione collettiva degli europei non esiste con precisione un’Europa, è difficile. Se vai in Albania si sentono europei, anche se sono di tradizione musulmana, eppure sono fuori dall’Unione.

Mi torna in mente la danzatrice araba andalusa: per esempio diamo per scontato che la Spagna sia una colonna fondante della cristianità, ma per quasi un millennio è stata musulmana. E infatti quando l’Isis fa le mappe del Califfato del futuro, oltre al Medio Oriente e al Nord Africa, ci mette la Penisola iberica.

Di recente ho visto una pubblicità degli anni Sessanta, una pubblicità dei primi momenti turistici ai tempi di Franco, con lo slogan: Spagna, la bellezza dell’Africa e il piacere dell’Europa. Anche nei paesaggi c’è una Spagna africana: ci sono i deserti, in Spagna!

Rovine, guerre e male sono ingredienti fondamentali dell’epica.

Sì, l’epica è molto presente in Zona per esempio. Una delle fonti infatti è Omero. È forse il mio libro più epico. Ma l’epica è anche poesia, ritmo… E Zona è un libro che si nutre dell’epica di Omero soprattutto.

Facciamo un salto nell’Europa Est, come hai fatto per L’alcol e la nostalgia: se l’anima più profonda dell’Europa è mediterranea, pensi che questo difficile equilibrio su cui si basa l’identità europea sia stato messo in pericolo dall’apertura a Est del 2004?

È difficile, perché i russi vogliono il loro impero. L’Europa non arriva fino all’Ural, e abbiamo visto che la Russia non è disposta a lasciare così facilmente all’influenza europea l’Ucraina, la Bielorussia e questi Paesi. Per loro sono una parte del loro impero, e vogliono che sia così.

La tua letteratura ha un carattere fortemente politico – il rapporto tra Occidente e Oriente – ma non ci sono rivendicazioni esplicite.

Per me tutti i miei libri hanno una base politica. Non è la politica dei partiti, dell’attualità politica, ma le relazioni fra Oriente e Occidente sono politiche. Anche parlare di guerre e battaglie è un gesto politico. Cioè, inviare Michelangelo a Istanbul, inventarsi questa storia, è un gesto politico. Per dire: ci sono queste relazioni tra Est e Ovest, ci sono da sempre. È vero che non faccio politica nei miei libri come la faccio io da cittadino, sono due cose diverse.

Quello che cambia molto tra i tuoi libri è il modo di scrivere. Anche questa non è una cosa così comune.

Ogni progetto ha la sua precisa forma stilistica. Non si può scrivere Zona con la lingua di Bussola, e neanche con la lingua di Parlami di battaglie. Sono tutti personaggi diversi, e quindi forme di scrivere molto diverse.

Oltre a tutto, c’è sempre l’amore. Nonostante tutte le guerre, tutte le rovine e il male.

C’è sempre, ed è un amore è molto diverso fra un romanzo e l’altro. Quello di Bussola è un amore che fa da filo tra Sarah e Franz, tutto il libro è una dichiarazione d’amore verso Sarah. Ma per me l’amore, come la violenza, come il male, è onnipresente. Anche nella letteratura. La poesia amorosa medievale per me è sempre stata una grande influenza, così come la lirica persiana. Scrivere un romanzo è bere da tutte queste fonti.