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La Primavera araba? Una lezione di civiltà anche per l'occidente

Autore: Paolo Merlini
Testata: La Nuova Sardegna
Data: 2 settembre 2011

Quarantun anni, scrittore, giornalista e traduttore, Amara Lakhous è uno degli esponenti più autorevoli della diaspora degli intellettuali algerini seguita al colpo di stato militare nel 1992, quando la libertà di pensiero venne ferocemente perseguita nel paese nordafricano. Dal 1995 vive in Italia, a Roma, dove ha continuato la sua attività di scrittore con libri di successo: il più famoso . «Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio» (edizioni E/O, 2006), un noir ironico ambientato in una zona multietnica della capitale, vincitore del premio Flaiano, da cui la regista Isotta Toso ha tratto un film. Ha lavorato a lungo come giornalista all'Adn-Kronos, ma da qualche tempo ha scelto di dedicarsi solo alla letteratura. Amara Lakhous è uno dei protagonisti del festival «A Libro Aperto» che comincia oggi a Santu Lussurgiu, rassegna che gira intorno alla letteratura e ai grandi temi d'attualità senza clamori e con partecipanti d'eccezione, come i critici Filippo La Porta e Massimo Arcangeli, lo scrittore Nicolai Lilin, autore del celebre «Educazione siberiana », e le autrici italo-somale Ubah Cristina Ali Farah e Igiaba Scego (quest'ultima, premio Mondello 2011). Amara Lakhous scrive in arabo e in italiano, i suoi libri sono stati tradotti all'estero riscuotendo successo. Al "conflitto di classe" è seguito lo scorso anno «Divorzio all'islamica a viale Marconi», altro titolo un po' alla Lina Wertmüller (e del resto Lakhous dichiara di ispirarsi molto alla commedia all'italiana), sempre per E/O, che ha appena pubblicato il primo romanzo dello scrittore algerino, «Un pirata piccolo piccolo». Alla stesura originale, Lakhous ha aggiunto una prefazione scritta in questi mesi, all'indomani della Primavera Araba. Negli anni Novanta e anche in seguito l'Algeria ha anticipato la Primavera Araba, con proteste e manifestazioni di piazza. Eppure lei ha dovuto lasciare il suo paese, che oggi non sembra seguire l'onda di rivolta che ha pervaso Tunisia, Egitto, Siria, Libia. Cosa accade? «L'Algeria è un paese sospeso, anche se i motivi che hanno portato i giovani degli altri paesi arabi a ribellarsi sono fondamentalmente gli stessi. Ma la gente da noi ha paura del ritorno degli anni di piombo, di feroci repressioni». Lei è più tornato in Algeria? «Ho potuto farvi rientro nel 2004, e da allora torno almeno un paio di volte l'anno. L'Algeria è un paese complesso, popoloso e vastissimo, potenzialmente ricco eppure molto povero. Soprattutto c'è una corruzione diffusa, un dato comune a tutti i paesi arabi». Diciamo mediterranei... «Effettivamente... C'è poi un divario enorme tra le generazioni ». Internet e i social network sono stati davvero le rotaie di questa rivoluzione? «Non ci sono dubbi. Quando vi fu la rivolta in Algeria negli anni '90, i giovani denunciarono esattamente le stesse cose, lo stato corrotto, il partito unico. Ma come sappiamo allora internet non c'era. Quando intervenne l'esercito si seppe fuori dai confini del paese solo settimane dopo. Oggi grazie ai social network si sa tutto in tempo reale. Ciò ha aiutato i ragazzi della Primavera Araba ». Colpisce il fatto che nella protesta non ci siano caratterizzazioni religiose, né derive fondamentaliste. «Diciamo che questi regimi totalitari hanno usato il timore del fondamentalismo e del terrorismo per rimanere al potere e mandare un messaggio chiaro all'opinione pubblica internazionale: erano loro che garantivano stabilità. Mubarak nella sua ultima intervista lo ha detto: se vado via io crolla tutto. Sono stati i fatti a smentirli. Le rivoluzioni hanno dimostrato una maturità straordinaria, innanzitutto si è trattato di una lotta generalmente pacifica, nella consapevolezza che la violenza di chi si ribella diventa un'arma in mano ai regimi. Poi nei grandi slogan non c'era nulla contro Israele, o gli Usa: è stata spazzata via tutta la propaganda. I diritti del popolo hanno avuto la precedenza assoluta». Alcuni osservatori ritengono che il cammino verso la democrazia di alcune nazioni arabe debba essere in qualche modo guidato dall'occidente. È una nuova forma di colonialismo? «Le rivoluzioni hanno dimostrato che in realtà non esiste un blocco, un mondo arabo omogeneo. Bisogna andare a vedere caso per caso. In Egitto o in Tunisia le rivolte hanno avuto successo perché le società erano basate su alcuni elementi di modernità, con una società civile e un ceto intellettuale impegnati. Non dimentichiamo poi che il parlamento in Egitto è stato costituito nel 1866, cinque anni dopo l'Unità d'Italia, la costituzione tunisina è dell'Ottocento. Diversa la situazione in paesi come lo Yemen o la Libia, dove sostanzialmente lo stato non c'è., ci sono le tribù. Gheddafi non ha caso alla fine ha chiesto aiuto alla sua tribù. Con queste realtà bisognerà confrontarsi». Lei è ottimista? «Sono consapevole che quei sistemi di potere non potevano più reggere. La corruzione ha raggiunto livelli incredibili di fronte a povertà estreme. E poi l'arroganza dei dittatori: Mubarak preparava la successione al figlio, Ben Alì, avendo un figlio di appena 8 anni voleva lasciare la guida alla moglie. Questi paesi erano diventati una proprietà privata, come una casa da lasciare in eredità ai figli. Della Libia poi non parliamo, sono vicende note a tutti». A cosa sta lavorando? «Scrivo un romanzo che uscirà il prossimo anno ed è ambientato a Torino. Parla dell'immigrazione meridionale degli anni '50 e '60, quella che gli italiani non vogliono ricordare. Ovviamente legandola all'immigrazione di oggi».