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Esame di coscienza di una comunista

Autore: Diego Zandel
Testata: La Gazzetta del Mezzogiorno
Data: 10 gennaio 2012

Christa Wolf è morta lo scorso 1° dicembre, all'età di 82 anni. Il suo ultimo libro, La città degli angeli, edito in Italia come tutti gli altri dalle Edizioni E/O, è uscito negli stessi giorni. Non è un romanzo, ma il racconto del suo lungo soggiorno, nove mesi, a Los Angeles, la «città degli angeli» appunto, tra il 1992 e il 1993, ospite della Fondazione Getty. Un racconto sviluppato sulla base dei molti appunti che raccolse allora e che si nutrono del confronto tra la sua vita interamente trascorsa nella Repubblica Democratica Tedesca, ovvero la Germania comunista, da scrittrice e militante del partito, le sue riflessioni succedute alla caduta del Muro di Berlino, e quanto elaborato successivamente. Il risultato è straordinario, perché Christa Wolf, che non ha mai abiurato non solo alla sua fede comunista ma neppure alla scelta di vivere nella Germania dell'Est, pur avendo più di un'opportunità di spostarsi in quella occidentale, si sottopone in queste pagine a un esame di coscienza lucido e molto sofferto con se stessa, e le idee nelle quali ha creduto, da spazzare via ogni banalità figlia di possibili pregiudizi anticomunisti. È vero che il soggiorno americano di questi pregiudizi anticomunisti, spesso isterici, gliene offre molti, tant'è vero che, a un certo momento, a Peter Gutman, un altro ricercatore che viveva come lei nella residenza, chiamata semplicemente CENTER, e con il quale era entrato in una feconda confidenza, chiede, attonita e intimidita, semmai davvero ella fosse un «mostro». Perché tutti le chiedevano: come aveva potuto vivere sotto il regime della DDR, perché non s'era ribellata… Anzi, lei si portava dietro una colpa maggiore: quella di essere stata - ma lo aveva scoperto dopo, quando si aprirono gli archivi della Stasi, la polizia politica della DDR - una collaboratrice informale della stessa. La inchiodava una lettera, scritta di suo pugno nel 1959, relativamente ad altri scrittori, che un'addetta all'archivio le aveva dato dopo averle consegnato le informazioni che la Stasi aveva ricevuto su di lei. Lasciamo al lettore la confessione bellissima, ancorché drammatica, dell'emergere nella coscienza della Wolf di quel fatto rimosso. Incalzata dall'amica Sally, là in quel mondo lontanissimo, in quella residenza di fronte allo spazio infinito dell'oceano, nella luce che per lei resterà indimenticabile, all'amica Sally che le chiede: «Ma eri proprio obbligata a parlarne?», assistiamo alla resa della scrittrice: «Me lo chiesi anch'io, dissi, quando fui nuovamente in grado di pormi domande, e la mia risposta fu: no. No, mi dissi, non ero obbligata a parlarne. D'altronde avevo paura». Fu la sua unica colpa. Se colpa fu. D'altra parte, da scrittrice tedesca, il suo confronto con Los Angeles è anche un confronto con i tanti scrittori tedeschi, da Brecht a Thomas Mann, da Franz Werfel ad Adorno, che si ritrovarono in quella grande città dopo aver abbandonato, al tempo del nazismo, il loro Paese quasi in blocco, tanto da dare vita a quella che fu chiamata la «Weimar sotto le palme». Il confronto con queste personalità
- in particolare con Brecht, che alla caduta del nazismo avrebbe lasciato Los Angeles per tornare a vivere nella Berlino comunista, e con Thomas Mann, del quale legge i Diari, parallelamente alla ricerca per cui era stata invitata dalla Fondazione Getty sulla personalità di una donna che le era stata amica - serviranno da raccordo tra presente e passato. La sua lucidità non le fa mai perdere il filo ideale che resta forte di fronte a un Paese del quale non può non notare che i valori per i quali si abdica a tutto il resto sono il profitto e il successo. Oppure che, pur essendo eletto il presidente da solo un terzo dei cittadini «si riteneva la migliore delle democrazie» oppure, ancora che, all'epoca della prima guerra del Golfo, non batte ciglio all'arrivo di duemila salme di soldati caduti in combattimento. Lei i suoi dubbi, tranne che sulla necessità della lotta al nazismo, li aveva tutti, non senza provare però metà compassione e metà invidia per gli americani. «Almeno non erano dilaniati dai dubbi su se stessi, dev'essere un grande aiuto, pensai». Forse, però, erano più poveri di lei, che non aveva mai smesso di credere che il bene comune viene prima del profitto.