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L'amica geniale, di Elena Ferrante

Autore: Mariella Sciancalepore
Testata: TheBlackDalia's Blog
Data: 17 gennaio 2012

L’amica geniale, di Elena Ferrante, è un libro che incanta; e le oltre trecento pagine volano senza accorgersene.

Il prologo, ambientato nell’oggi, ci mostra una donna di sessantasei anni che, per ritrovare dentro di sé le tracce dell’amica scomparsa, comincia “a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente”. Ed ecco che dalla Torino del terzo millennio ci ritroviamo catapultati negli anni Cinquanta a seguire le avventure di due bambine, Lena e Lila, in un quartiere periferico e degradato di Napoli.

C’è una tensione narrativa fortissima in questo libro, che tiene avvinghiato il lettore, grazie alla capacità di questa straordinaria autrice (chiunque ella sia) di dare vita con le parole a personaggi suggestivi e talmente reali che si fa fatica a staccarsene quando si chiude il libro. Da questo punto di vista l’Autrice regala una speranza al lettore innamorato perché la storia non finisce. A questa prima parte, dedicata all’infanzia e all’adolescenza delle due protagoniste, seguirà infatti (speriamo presto!) una seconda e magari anche una terza parte che le accompagnerà attraverso l’età matura fino alla vecchiaia.

L’infanzia di Lena e Lina, l’una figlia di un usciere, l’altra figlia di uno scarparo, raccontata senza nostalgia dalla stessa Lena adulta, è una infanzia segnata dalla miseria, sociale e umana, e che fa i conti con la violenza quotidiana e accettata con fatalismo:

Ci succedeva di tutto, in casa e fuori, ogni giorno, ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c’era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi. Certo, a me sarebbero piaciuti i modi gentili che predicavano la maestra e il parroco, ma sentivo che quei modi non erano adatti al nostro rione, anche se eri femmina.

Da questa miseria e da questa violenza che incombe sulle loro vite le due bambine proveranno a fuggire leggendo insieme Piccole Donne e sognando di scrivere un libro di successo che porti loro fama e ricchezza e soprattutto le porti via dal quartiere. Entrambe sono decise a emanciparsi dalla situazione di partenza e a crearsi un destino diverso da quello dei loro padri e, soprattutto, delle loro madri (negli anni Cinquanta, a differenza di oggi, era possibile).

E il lettore segue con partecipazione crescente questa loro ribellione che nel tempo prende forme diverse. All’inizio c’è il sogno condiviso di pubblicare un libro e diventare ricche. Poi sarà la volta del sogno più concreto del calzaturificio per Lila e dello studio per Lena.

Durava forse l’idea del denaro come cemento per consolidare la nostra esistenza e impedire che si smarginasse insieme alla persone che ci erano care. Ma il tratto fondamentale che ormai stava prevalendo era la concretezza, il gesto quotidiano, la trattativa.

L’idea che lo studio, e l’emancipazione culturale che ne deriva, rappresenti l’unica via d’uscita per non diventare come i propri genitori è sottesa a tutto il romanzo. Quando alla spigolosa Lila questa via sarà preclusa dalla grettezza della famiglia d’origine (Lena invece riesce, grazie alla maestra Oliviero, a iscriversi addirittura al liceo classico), lei cercherà una via tutta sua per emergere dallo squallore del quartiere.

Intorno alle due indiscusse protagoniste e al loro piccolo mondo, tanti personaggi ma sono di contorno perché la personalità delle due piccole donne emerge su tutti, soprattutto sui maschi, grandi e piccoli, che rimangono figure meschine o insulse. Ed è un fil rouge nei romanzi della Ferrante. L’amica geniale (ma chi sarà delle due?) si interrompe in maniera brusca, nel momento in cui una di loro sta compiendo un passo che segna la fine della giovinezza. Non posso svelare quale, per non togliere piacere della lettura.

È importante però sottolineare che, nonostante l’incompiutezza, questo romanzo lascia un senso di pienezza e la percezione di essere entrati in una dimensione parallela tanto si viene assorbiti dalla narrazione. Merito anche della scrittura.

La lingua della Ferrante è avvolgente e coinvolgente, è una lingua che nasce dalle viscere della terra, di una Napoli che, oggi come ieri, affascina con le sue contraddizioni e con le sue metafore. Una lingua viva e vivace, in cui il dialetto (ed è un ulteriore elemento di forza del libro) compare solo dove necessario. E sottesa a tutto l’elegante ironia di una Autrice che con questo libro si conferma una delle migliori voci nel panorama italiano. Un’autrice indubbiamente “geniale”, anche per il suo mistero, per il suo rivelarsi al pubblico solo attraverso la sua opera. Alla fine è l’unica cosa che conta.