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Settanta acrilico, trenta lana

Autore: Licia Lanza
Testata: LibriConsigliati
Data: 6 luglio 2011

Camelia vive in una Leeds fredda e cupa, «dove l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima», una città fin troppo simile alla sua vita condivisa con una donna che non è più madre ma un animale ferito di cui necessariamente prendersi cura.

Camelia ha una vita se non normale almeno molto simile a quella di tante altre ragazze, una vita che improvvisamente viene segnata inesorabilmente e in profondità dalla perdita: perdita del padre, che muore insieme alla sua amante, perdita di sé della madre, che sopraffatta dal dolore si autoesclude dal mondo.

La madre Livia, chiusa nell’appartamento-prigione, dopo la morte del marito inizia il «lutto delle corde vocali», dando vita a quella lingua degli sguardi dove è sempre lei a dettare le regole, lasciando troppo spesso Camelia sola con le sue domande («Ogni domanda mi tornava indietro come un boomerang […] la mia voce sporgeva vergognosamente sul suo silenzio»). Livia toglie se stessa dal mondo con un’ossessiva volontà di autodisfacimento, segnata dalla sua dedizione nel fotografare qualsiasi buco incontrato per casa e dalla continua caduta verso una non cura di se stessa, dalle docce non fatte ai vestiti sporchi e mai cambiati, al cibo trangugiato con le mani in gesti che hanno dell’animalesco.


Camelia segue la madre nel buco nero che giorno dopo giorno le inghiotte: si accanisce sui fiori che incontra per strada e che non esita a decapitare, e sui vestiti che prende dai cassonetti della spazzatura e che deturpa, assembla, indossa. Cerca di prendersi cura della madre sacrificando se stessa e allo stesso tempo rovista nel mondo grigio che la circonda fuori dalla casa-prigione alla ricerca di segnali della sua non esistenza. È lì che si apre un piccolo spiraglio, qualcosa che la porta a spingere con forza anche la madre verso una rinascita. Sarà però la stessa Camelia, rifiutata dagli affetti che con affanno ricerca, a decidere inesorabilmente di rimettere tutto nel giusto ordine: la casa è prigione e tale deve restare, non ci deve essere posto per altri se non per le due donne e per la loro comune autodistruzione silenziosa.

Viola di Grado, attraverso una ricerca stilistica fatta di parole pesate al singolo grammo, ricercate, incastonate con cura tra loro, trasmette tutta la rabbia e lo sgomento di una storia drammatica e crudele, capace di coinvolgere il lettore fin dall’inizio, nonostante o forse anche per il senso di sgomento che accompagna pagina dopo pagina, fino alla sua drammatica conclusione.