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Il crescendo di Rossini

Autore: Enzo Mangini
Testata: Carta
Data: 30 settembre 2006

C’è un filo musicale che accompagna la vita di Beniamino Rossini. Bandiera rossa, prima di tutto, e i versi di una canzone popolare polacca, che parla di contrabbandieri e di confini. Poi le canzoni di Ricky Gianco e il rock italiano. Fino al tappeto sonoro dei night, che sono la cornice dei suoi ultimi anni di vita. E se uno ha letto le avventure dell’Alligatore, il detective eterodosso creato da Massimo Carlotto, non può non immaginare che sia il blues ad accompagnare la voce di Beniamino Rossini mentre mette in ordine i suoi ricordi accendendo una sigaretta dopo l’altra.

Dei personaggi che accompagnano l’Alligatore nei cinque romanzi di Carlotto, Beniamino Rossini è il più convincente. La sorpresa è stata grande, quindi, quando con La terra della mia anima [edizioni e/o, 158 pagine, 15 euro] che arriva in libreria in questi giorni, Massimo Carlotto ha rivelato che il Beniamino Rossini della letteratura ha avuto un fratello, omonimo e quasi gemello, nella vita «reale». L’ultimo romanzo di Carlotto è una biografia. «È stato il romanzo più difficile - ci dice Carlotto - Perché si è trattato di mettere in ordine i ricordi di un altro. Mi sono sforzato di lasciar parlare Beniamino, nei suoi ricordi come nelle sue riflessioni sul presente. Quando scrivevo di Rossini nell’Alligatore era molto più semplice, era un personaggio che mi serviva per raccontare la differenza tra la vecchia e la nuova malavita. In questo caso, invece, nulla nasce da me. Mi sono trovato di fronte a materiale di tutt’altro tipo: un bilancio sul presente oltre che sul passato. I due Rossini, però, si assomigliano molto». La vita di Beniamino Rossini è uno spaccato della storia d’Italia degli ultimi decenni, vissuta da irregolare: contrabbandiere, comunista, rapinatore romantico, gangster, recluso e poi fuori, in un’Italia, e un Nord-est soprattutto, che nel frattempo hanno subito una mutazione genetica.

«All’inizio ero molto perplesso - prosegue Carlotto - Perché i ricordi di Beniamino mi costringevano a esplorare zone della mia memoria che non avevo voglia di frequentare. Poi ho cercato di essere professionale. Il materiale che Beniamino mi ha offerto è bellissimo, importante».

Rossini è la memoria storica di un’Italia sotto la superficie. Ne era consapevole, o è stato il lavoro del- lo scrittore che in un secondo momento ha fatto venire fuori questo aspetto?
No, non è merito dello scrittore. Beniamino ne era consapevole e anche per questo motivo ha voluto che raccogliessi i suoi racconti. Alla fine lui non aveva più nulla a che vedere con il mondo della malavita, che si era trasformato in modo profondo e definitivo. Lui se ne rendeva conto e ripeteva sempre una frase: che le organizzazioni criminali di oggi si comportano come si comportavano le multinazionali del tabacco negli anni sessanta. Hanno una visione del mondo assolutamente spietata. A meno che non vogliamo continuare a credere che Provenzano sia il modello mafioso dominante, dobbiamo capire che la globalizzazione dell’economia ha determinato anche la globalizzazione del crimine. Le organizzazioni criminali si comportano sempre di più come multinazionali.

Seguendo la storia d’Italia attraverso i ricordi di Rossini, cosa è venuto fuori?
Uno dei motivi che mi ha spinto a scrivere questo romanzo è che questo paese ha una perdita di memoria, una specie di falla. La questione del contrabbando e poi delle rapine mi è servita anche per raccontare la sinistra, il passaggio al Partito comunista e poi alla sinistra rivoluzionaria, fino al Settantasette. Sono riuscito a incasellare una serie di cose che rischiavano di andare perdute. Per esempio rinominare Giorgio Napolitano, e ricordare qual è stato il suo ruolo nel Pci, mentre veniva eletto presidente della repubblica: è interessante, no?

Sembra emergere, nel racconto, quasi una coincidenza temporale tra le trasformazioni della sinistra e quelle della criminalità. C’è un nesso?
Il Sessantotto e la diversificazione della percezione della politica nei quartieri operai e popolari hanno portato anche alla formazione delle cosiddette «batterie» di rapinatori che praticavano una sorta di assalto alla ricchezza. Quando è iniziato il processo di sconfitta ed è cambiato il tessuto sociale, ciò che è venuto dopo è stato il peggio della società italiana. Il riflusso della società italiana ha coinciso con la trasformazione della criminalità: quando è finita la politica dell’opposizione forte, si sono imposti gli spacciatori prima, e poi altri tipi di criminalità che non avevano a che fare né con quella precedente né con il territorio. Poco dopo è partita la locomotiva del Nordest, un modello economico vincente, che si basa sullo sfruttamento, sul lavoro nero, sull’evasione sistematica del fisco. L’economia si trasforma e nasce la commistione tra l’economia legale e quella illegale. L’apparato illegale si innesta sul circuito produttivo: fa fortuna e ne fa la fortuna. Mentre Beniamino precipita all’inferno, nasce questo modello economico.

La storia di Beniamino sfida un altro luogo comune, perché si svolge quasi tutta al nord. Bisognerà scrivere, prima o poi, una storia criminale del nord d’Italia?
In effetti ci vorrebbe. L’Italia si è dimenticata l’epoca dei marsigliesi, che è stato il momento in cui la malavita del Nord è diventata malavita europea. Marsiglia, la Svizzera sono state il centro del riciclaggio di denaro sporco, che non è mai stato riciclato al sud. C’è poi la storia del rapporto di alcuni industriali del Nord est con la guerra in Jugoslavia. Beniamino lo racconta: dalla Croazia e per la Croazia poteva passare di tutto, perché i controlli erano inesistenti. L’insediamento a est degli industriali veneti e friulani, fino ai distretti di oggi in Romania, è iniziato allora, quando mafie dell’est e industriali del Nord est si sono conosciuti e hanno cominciato a fare affari.
Ogni passaggio politico ed economico di questo paese ha coinciso con una trasformazione della criminalità, che ha trovato nuovi modi di delinquere e di fare profitti. Ma questo legame è un nesso che non è stato mai indagato.

Il racconto di Beniamino tocca il tema del carcere. La memoria italiana è corta anche in questo caso?
Abbiamo discusso a lungo prima di scrivere queste parti, perché non avevo molta voglia di ricordare. Beniamino mi ha convinto proprio con l’argomento della memoria. Diceva, a ragione, che si è perso il ricordo delle rivolte, di quello che erano le prigioni e di come le condizioni di vita siano un po’ migliorate non per l’illuminazione o la bontà di qualche politico, ma per le lotte fatte - e pagate - all’interno delle prigioni. Le lotte sono state furibonde e la pacificazione delle carceri è stata ottenuta a prezzo di enormi e gravissime violazioni dei diritti. Molti di quelli che hanno letto le bozze sono rimasti sconvolti quando sono arrivati al capitolo del carcere. E questo mi ha convinto del tutto che Beniamino aveva ragione. Anche su questo.
Ha avuto un enorme coraggio ad aprirsi così. Per esempio quando racconta dell’amore con Dalila, la transessuale, è una rottura forte per l’ambiente criminale da cui veniva, così come quando mette i mafiosi all’ultimo gradino della scala delle bassezze carcerarie. Lui era così. Al suo funerale c’erano scrittori, pittori, attori, musicisti, che lo avevano apprezzato per quello che era. Non era una macchietta, ma una persona capace di grande analisi e con una visione romantica del mondo. La stessa visione che, dopo Genova e più ancora nei momenti terminali della sua malattia, lo ha spinto a riconciliarsi non con la religione bensì con la politica. Voglio morire comunista – diceva – e ribelle.