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Caccia alle streghe

Autore: Natalia Aspesi
Testata: Elle
Data: 1 giugno 2006

Un’età di tenebre e superstizione, un luogo inventato d’Italia, un dialetto di fantasia, metà siciliano e metà veneto. Sono gli ingredienti di un romanzo d’esordio che mette in scena la crudeltà dei potenti e l’ignoranza degli oppressi.

Mi sono sempre interessata alle storie di streghe: non quelle delle fiabe, ma quelle che furono definite tali nella realtà. Per superstizione o paura o vendetta o ignoranza, a migliaia sottoposte a tortura e poi giustiziate sul rogo.

Erano i tempi della terribile Inquisizione che ovunque decideva della vita di persone innocenti, accusate di congiungersi col demonio e di fare malefici. Erano giovani, erano vecchie, erano belle, erano storpie, mille erano i segni della loro sottomissione a Satana, quasi tutte appartenevano ai ceti più poveri. Anche Giovanna d’Arco fu condannata a morte con l’accusa di stregoneria. Celebri furono le streghe di Salem, che nel 1692 sconvolsero la cittadina del Massachusetts.

Tea Ranno, siciliana di Melilli al suo primo romanzo, si è inventata una storia abbacinante, violenta, che fa rivivere i tempi oggi inimmaginabili quando il popolo immerso nella sua miseria e sottomissione imputava tutte le sue disgrazie alla stregoneria, e la Chiesa, i nobili, i notabili, di questi terrori si servivano per mantenere il loro potere.

Cenere si svolge nello stesso periodo di Salem, nella seconda metà del ‘600, in una zona indecifrabile dell’Italia, dove i nobili parlano una lingua forbita e i “villani” un dialetto che l’autrice si è inventata, tra siciliano e veneto. Ispirandosi al piccolo libro di Sciascia La strega e il capitano, si è documentata su atti processuali, resoconti storici, e sul famoso Malleus Maleficarum, massimo testo antistregoneria del XV secolo.

Il romanzo inizia con un rogo, quello della servetta Caterina, strega confessa sotto tortura, colpevole in realtà di essere troppo bella e di aver fatto innamorare Giovanni, concupito dalla nobile padrona che l’ha denunciata.

Donna Stéfana è superba, crudele, dispotica, affama le tante serve terrorizzate, frusta chi non le aggrada. Però è massimamente devota, e vuole che la Chiesa riconosca i suoi meriti per aver fatto bruciare l’innocente Caterina. Ma da questo momento la vita della nobildonna, sola perché il ricchissimo marito è in giro per affari, comincia a precipitare verso un destino impensabile, che la riscatterà di ogni sua crudeltà.

Tea Ranno è molto brava a creare queste moltitudini di straccioni e affamati che sopravvivono per l’avida benevolenza dei ricchi: servi, contadini, artigiani, lasciati nella loro superstizione che li fa gioire ogni volta che una “stria”, una poveraccia come loro, viene imprigionata, sottoposta ai supplizi più spaventosi e poi giustiziata.

Il romanzo racconta con maestria l’ipocrisia, la cupidigia, la spietatezza delle classi alte, e anche cardinali e magistrati ci fanno una pessima figura: al diavolo non credono, ma del diavolo si servono per i loro scopi di dominio.

Il linguaggio dialettale inventato è ormai diventato una moda letteraria, vedi anche La vedova scalza del sardo Salvatore Niffoi, e in Cenere raggiunge una visionarietà sonora quasi musicale che dà a tutta a storia una specie di affanno, di rincorsa, di velocità che rafforza lo scorrere del dramma, della tragedia, del destino.