Ancora una volta Napoli è presente con forza nel lavoro di Elena Ferrante, pseudonimo della misteriosa scrittrice che, a detta del suo editore, vive lontana
dalla città da tanti anni (e sulla cui identità si sono scatenate ipotesi più o meno verosimili, per esempio è stata identificata con Goffredo Fofi o con Domenico
Starnone, e ad ogni identificazione è seguita la puntuale smentita dellinteressato).
Un clan di napoletani infesta con chiassosa protervia la spiaggia dove si trova in vacanza Leda, protagonista del nuovo romanzo, La figlia oscura (edizioni e/o, pagine 141, euro 14,50), in libreria da venerdì prossimo. «Gente cattiva», dice il bagnino e ci lascia immaginare la provenienza dubbia di quella «brutta ricchezza» e di quella prepotenza. Leda pure viene dal Vesuvio e il clan la riporta indietro, alla sua infanzia e alle stimmate di una napoletanità detestata.
«A partire dai tredici-quattordici anni», è il pensiero della protagonista, «avevo aspirato al decoro borghese, a un buon italiano, a una buona vita colta e riflessiva. Napoli mi era sembrata unonda che mi avrebbe annegata. Non credevo che la città avrebbe mai potuto contenere forme di vita diverse da quelle che avevo conosciuto io da bambina, violente o sensualmente indolenti
o di sguaiatezza sdolcinata o ottusamente arroccate a difesa del proprio degrado miserabile. Non le cercavo nemmeno, quelle forme, né nel passato né in un possibile futuro. Ero andata via come un'ustionata che urlando si strappa di dosso la pelle bruciata credendo di strapparsi di dosso la bruciatura stessa».
Ecco dunque una delle più efficaci definizioni coniate negli ultimi anni per la città: l«ustione-Napoli», per lappunto.
Ancora una donna, o meglio una madre, si trova al centro del discorso della scrittrice che indaga dallinizio della sua carriera i percorsi dellidentità femminile, pur non lasciandosi affatto incasellare nella letteratura «di genere». Tre anni fa unimportante casa editrice svedese acquistò i diritti di traduzione del romanzo della Ferrante I giorni dellabbandono, ma poi il libro fu censurato perché giudicato immorale. Non per eccessi sessuali o per immagini violente, ma per il tema della maternità rifiutata. Olga, la protagonista di quella storia, sperimentava infatti durante i «giorni dellabbandono» e della perdita dellamore, anche una crudele e involontaria indifferenza verso i propri figli.
Ed è proprio su questo scivoloso confine che torna a spingersi di nuovo la Ferrante, riprendendo per grandi linee diversi nuclei tematici avviati nellaltro romanzo come nel primo, quello del fortunato esordio, Lamore molesto (entrambi sono stati portati sul grande schermo, luno da Roberto Faenza, laltro da Mario Martone). Anche stavolta la protagonista, dal mitologico nome, viene da una infanzia napoletana funestata da una madre troppo bella e incapace di capire i turbamenti della ombrosa figlia. Anche stavolta torna la «frantumaglia», termine che definisce un grumo di malessere, una faticosa dispersione del sé («Ebbe un gesto per indicare una vertigine ma anche un senso di nausea
mia madre la chiamava frantumaglia») e che la Ferrante ha usato come titolo di un suo libro di riflessioni sulla scrittura. E soprattutto cè di nuovo la maternità come evento insondabile dallesterno, che conferisce alla donna un enorme potere e che può essere perfino funesta e incontrollabile, come in una tragedia greca. Tanto che Leda è costretta a fuggire dal suo ruolo per ben tre anni, lasciando le figlie piccole al padre, senza provare il desiderio di vederle, e neppure di sentirle.
Questo episodio, centrale e denso di conseguenze nel racconto, è cronologicamente lontano dal punto in cui la narrazione prende lavvio, appartiene al passato di Leda. È inconfessabile e occultato nella coscienza, mentre lancora avvenente studiosa di letteratura inglese si avvia verso il Sud per una solitaria vacanza che le dona una piacevole leggerezza: «Nessuno dipendeva più dalla mia cura e io stessa finalmente non mi ero più di peso».
Ma lincontro che Leda fa sulla spiaggia non è galante o frivolo. È invece una sorta di doloroso inciampo in unaltra se stessa, una donna giovane e bella (unica eccezione dellodiato clan partenopeo), che sembra presa soltanto dalla sua bambina e che restituisce a Leda linvidiabile immagine della madre perfetta. È soltanto unapparenza, ma tanto basta a scatenare la reazione della protagonista che cerca di incrinare quel microcosmo di amore con un atto apparentemente inconsulto, eppure terribile: il furto di una brutta bambola, la preferita della bambina.
Sullanalisi di questa geometria degli affetti e delle emozioni si fonda labilità di Elena Ferrante che, come poche scrittrici, sa scandagliare e soppesare ogni azione dei suoi personaggi e che, dietro il minimalismo di pagine fondate su pochissimi «fatti», sa aprire squarci sorprendenti sopra profondi drammi dellanima. Magari a discapito, in questo breve ma denso romanzo, dellironia che ha utilizzato in passato con maggiore disinvoltura, come strumento di difesa dal «male di vivere», ma come sempre con un rigore «scientifico» nellanalisi di caratteri e di sorprendenti itinerari esistenziali.