Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Ferrante e le cattive madri

Autore: Generoso Picone
Testata: Il Mattino di Napoli
Data: 7 novembre 2006

Un gesto privo di senso, tanto che non vale nemmeno la pena di parlarne con qualcuno perché «le cose più difficili da raccontare sono quelle che noi stessi non riusciamo a capire». Nasce da lì il nuovo romanzo della sempre più misteriosa Elena Ferrante, La figlia oscura (pagg. 141, euro 14,50), da venerdì in libreria. È ancora una storia di madri e figlie, abbandoni e fughe, assenze e ombre, un thriller familiare di grande tensione emotiva che si delinea lungo una spirale che affonda nel caos della vita e tenta di decifrarne la «frantumaglia».

Usa proprio questa parola la Ferrante per indicare lo scombussolamento, la vertigine, la sensazione di nausea che prende quando «ti si frantuma il cuore: non riesci a sopportare di stare insieme a te stessa e hai certi pensieri che non puoi dire». «Frantumaglia», come il testo del 2003 dove l’autrice de L’amore molesto e de I giorni dell’abbandono rifletteva sui temi della sua scrittura e sulla scelta di essere un nome senza volto: segno di una continuità di ricerca e soprattutto di una fedeltà a personaggi, atmosfere, sentimenti e situazioni.

Vi si poteva leggere: «Mia madre mi ha lasciato un vocabolo del suo dialetto che usava per dire come si sentiva quando era tirata di qua e di là da impressioni contraddittorie che la laceravano. Diceva che aveva dentro una frantumaglia. La frantumaglia (lei pronunciava frantummàglia) la deprimeva. A volte le dava capogiri, le causava un sapore di ferro in bocca. Era la parola per un malessere non altrimenti definibile, rimandava a una folla di cose eterogenee nella testa, detriti di un’acqua limacciosa del cervello». Lei, con il tempo, ha imparato a declinare il termine sulla base della propria esperienza e rappresentarne la massa di detriti che viene alla luce nella coscienza, l’inattesa perdita di quanto nella vita si riteneva stabile, la dolorissima angoscia di ritrovarsi in una comunità di estranei ma anche il paradigma del paesaggio incontrato nell’infanzia, «un’esplosione coloratissima di suoni, migliaia e migliaia di farfalle con ali sonore». Era stata la sofferenza di Delia ne L’amore molesto e di Olga ne I giorni dell’abbandono: ora tocca a Leda, la protagonista de La figlia oscura, un’altra donna che si ritrova a fare i conti con i cocci della propria esistenza e a tentare di trarne le conseguenze.

Lei è un personaggio in cui sembrano convivere aspetti della madre scomparsa di Delia e il rovescio del carattere di Olga. Se è vero che i libri non hanno bisogno di un autore, è innegabile che dalle pagine si può risalire per identificare il profilo di chi le scrive: il tratto autobiografico che certo Elena Ferrante imprime ai suoi romanzi va ricercato con attenzione e sapienza flaubertiana, ogni donna delle sue opere è lei, nessuna in particolare. In questo, l’apertura di quel laboratorio narrativo che proprio La frantumaglia rappresenta è decisamente utile e assai istruttivo. Ora, ne La figlia oscura, la presenza della bambina Elena, il personaggio su cui le conseguenze della vicenda narrata saranno più profonde, assume un significato importante, un rilievo simbolico forse decisivo per comprendere la sostanza psicologica presente almeno nei suoi testi. «La perdita della bambola è una scusa, mi dissi. Elena temeva soprattutto che la madre le sfuggisse».

Come le altre, Leda è una donna la cui fragilità si trasforma in energia dopo uno strappo nella vita. Si è separata da marito e figlie, ha da tempo divorziato da Gianni che ha tradito e Bianca e Marta ormai grandicelle sono partite per raggiungere il padre in Canada lasciandola sola, con i suoi quasi 48 anni, un lavoro universitario a Firenze, il corpo magro e la forza mite. Invece di piombare nel temuto gorgo della depressione, scopre di sentirsi leggera e pronta a rinascere, tanto che decide di andarsene in vacanza in una paesino del Sud. Quante volte aveva immaginato di annunciare ai suoi «me ne devo andare», lo aveva pure fatto però non in quel modo definitivo che aveva riscontrato in Brenda, l’autostoppista inglese ammirata per la sua scelta: «Certe volte scappare serve a non morire» e quando le chiedono perché una volta abbandonò le figlie per tre anni risponde che «le amavo troppo e mi pareva che l’amore per loro mi impedisse di diventare me stessa».

Ora è possibile. Leda si predispone vivere per sé, alla libertà riconquistata, al culto esclusivo dell’amor proprio e presto arriva il gesto insensato, o almeno indecifrabile per chi lo compie: sulla spiaggia impatta con una fragorosa famiglia napoletana i cui toni alti e grossolani paiono ingentilirsi nella tenerezza di Elena, la bambina. Quando un giorno la piccola si perde tra la folla della spiaggia, tocca a Leda rintracciarla e riportarla ai suoi. Nella borsa si ritrova la bambola a cui Elena è affezionata, e decide di non restituirla. Per spinta irriflessiva al soccorso, lei crede, per reazione tardoinfantile, per altro tipo di appropriazione indebita, ma l’oggetto - Nena, Nani, Nennella - assume i connotati della figlia oscura di Leda, il simulacro dell’amore materno, di una maternità finalmente serena. «Quante cose sciupate, perdute, avevo alle spalle, e tuttavia presenti, adesso, in un vortice d’immagini. Sentii nitidamente che non volevo restituire Nani, anche se avvertivo il rimorso, la paura di tenerla con me».

La cattiva madre Leda in quel corpicino di plastica che a volte pare vivo riversa il sentimento che temeva di aver perduto. La nasconde, la difende dalle altre donne e da Nina, la mamma di Elena, che di lei aveva fatto un esempio di autonomia e libertà. Salvo scoprire il furto e la freddezza con cui Leda ha assistito alla sofferenza della piccola, quasi ammalatisi. «Sono una madre snaturata», confessa. Le strappa la bambola dalle mani, però non basta, Nina deve punirla e con rabbia la punge con uno spillone alla gamba. Quando le figlie Bianca e Marta la chiameranno da Toronto chiedendole festosamente «Ci fai sapere, almeno, se sei viva o sei morta?», la risposta è: «Sono morta, ma sto bene». È un sogno, il frutto di un pensiero, un paradosso racchiuso nella cornice dell’immaginazione? Comunque sia, il percorso di Leda verso la verità dell’esistenza è compiuto. Adesso può risalire dalla frantumaglia, un altro miracolo della letteratura.