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L'ironia di Lakhous nel suo "Divorzio all'islamica"

Autore: Gabriella Grasso
Testata: Mixamag.it
Data: 7 febbraio 2011

Chi pensa che non si possano (o non si debbano) trattare argomenti impegnativi come l’integrazione, l’uso del velo o il terrorismo islamico con umorismo, dovrebbe decisamente leggere "Divorzio all’islamica a viale Marconi" di Amara Lakhous (e/o, euro 16) per cambiare idea.
 
Tra le pagine di una storia che parte già con una buona dose di ironia (c’è l’improbabile reclutamento da parte dei servizi segreti italiani di un siciliano che parla l’arabo, per smascherare un gruppo di presunti terroristi…) trovano spazio riflessioni di un certo peso. Amara Lakhous, scrittore algerino che vive in Italia da 15 anni, affida queste riflessioni ai due personaggi principali, che seguiamo a capitoli alterni: la “spia” Issa e l’egiziana Sofia, vicini di casa a Roma, in Viale Marconi.
 
Il fatto stesso che uno dei protagonisti sia un siculo/tunisino non è un capriccio narrativo. «Io dico spesso che, come arabo, non sono venuto in Italia: ci sono tornato. Gli arabi sono stati in Sicilia per due secoli e hanno lasciato le loro tracce nel carattere, nella fisionomia. Molti siciliani, nei secoli, si sono stabiliti in Maghreb. Insomma, tra la Sicilia e in Nordafrica esiste una memoria comune», spiega l’autore. C’è da chiedersi se, con questo curriculum, la Sicilia non sarebbe un “ponte” perfetto tra le due culture. «Certo, ma purtroppo è una terra dannata, piena di problemi, come l’Algeria. A proposito del mio Paese ho usato spesso una metafora che si può applicare anche alla Sicilia: quella dell’upupa, l’unico uccello che fa i bisogni nel proprio nido. Mi ricorda certi popoli che distruggono la propria terra al posto di proteggerla. Tuttavia la Sicilia potrebbe assumere questo ruolo in futuro. C’è ancora tempo. Antonio Gramsci parlava del pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà: ecco, dobbiamo essere ottimisti».
 
Le pagine dedicate a Sofia ospitano il dibattito sul velo. A lei non piace portarlo, ma quando gli italiani lo usano per attaccarla, allora lo difende, come parte della propria identità. «Quello che lei dice è: “se l’Italia è un Paese democratico, dove ognuno si può vestire come vuole e le suore possono velarsi, perché io no?”. Emerge così che dietro la questione del velo c’è dell’altro: dopo l’11 settembre, il suo significato in occidente è cambiato. Ma il punto, come diceva Leonardo Sciascia, è il rispetto delle regole, della legalità. Se in Italia esiste la libertà di abbigliamento e di culto, perché gli arabi devono incontrare degli ostacoli?», continua Lakhous. Di fatto, però, il velo ci pone davanti a un dilemma: quello tra il rispetto delle tradizioni e l’autodeterminazione delle donne... «È vero, nei Paesi arabi c’è un forte controllo sociale sul corpo femminile, ma le tradizioni cambiano con il tempo. Io voglio mandare un messaggio di ottimismo e di buon senso: con l’aumento dell’istruzione e la spinta sui concetti di legalità e parità, certe diseguaglianze spariranno. Tra gli immigrati musulmani, che vivono lontani da casa, sta già accadendo: la religione assume una dimensione più individuale che collettiva, più spirituale che politica. E poi, la condizione delle donne arabe viene spesso usata per criticare l’Islam, in contrapposizione con il modello di emancipazione femminile italiano. Ma questo discorso non mi convince. Nei Paesi musulmani il maschilismo è alla luce del sole. In Italia la condizione femminile è formalmente buona, ma nei fatti le donne guadagnano meno degli uomini e hanno poco spazio nella vita pubblica. Per non parlare dell’attuale modello femminile di successo: le veline…», aggiunge l’autore.
 
Visto che parliamo con un algerino, è inevitabile chiedergli che cosa pensa di ciò che sta avvenendo in queste settimane in Tunisia e in Egitto. «È una grande rivoluzione, impensabile fino a poco tempo fa. In Maghreb esistono classi dirigenti vecchie, corrotte, che agiscono con metodi mafiosi e considerano i Paesi come proprietà privata. Governi che hanno ricattato i loro popoli e l’opinione pubblica internazionale giocando sulla scelta tra democrazia e stabilità. Ora emerge che c’è la possibilità di avere la stabilità con la democrazia. Penso che anche in Algeria soffierà il vento della rivoluzione: ormai è inarrestabile. Ed è molto bello vedere la solidarietà che gli immigrati nordafricani in Italia esprimono ai loro conterranei». Se la situazione cambiasse, Amara Lakhous tornerebbe in Algeria? «No, ormai la mia vita è fuori. Se sia in Italia o altrove non lo so. L’altro giorno un’amica mi ha chiesto se mi sento a casa, qui. Le ho risposto: la mia casa è dove mi sento felice. Al momento, in Italia, sono felice».