Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Il ribelle brinda con le entraîneuses

Autore: Andrea Scanzi
Testata: La Stampa - Tuttolibri
Data: 21 ottobre 2006

La terra della mia anima non è quello che non poteva essere, ovvero una retorica celebrazione della «bella malavita che fu». Chi ha letto la pentalogia dell'Alligatore sa bene che Beniamino Rossini, protagonista del nuovo libro di Massimo Carlotto, era l'implacabile braccio armato del protagonista. Un uomo adibito e abituato a torturare i «cattivi», ora dissanguandoli e ora sparandogli alle cervella. Carlotto abbandona ogni finzione. E' «Massimo» stesso e non l'Alligatore a narrare la storia del vero Beniamino Rossini, conosciuto nella casa di reclusione di Padova e divenuto amico così importante da meritare la trasformazione in figura letteraria prima e in libro intero poi.

E' un lungo addio, questo, un (auto)ritratto del delinquente da malato: cancro al fegato, anzi tre («fai sempre le cose in grande»). Carlotto ha raccolto le memorie dell'amico e le ha trascritte in un libro uscito quando Rossini non c'è più: è morto il 7 maggio 2006 a 65 anni, le sue ceneri sparse sullo scoglio di Mangiabarche in Sardegna. Uno dei luoghi della saga dell'Alligatore. Una delle terre dell'anima. La colonna sonora delle 150 pagine è Ricky Gianco, l'artista più amato da Rossini: proprio Gianco, con Carlotto e Maurizio Camardi, porterà nei teatri d'Italia La terra della mia anima. Sarà il navigare post-mortem di un uomo, Beniamino, divenuto ben presto «spallone», contrabbandiere, nelle montagne di Ponte Tresa, «settantatré chilometri da Milano e ventidue da Varese». Un figlio segreto e una moglie tradita con decine di entraîneuses, «adatte a gente come me, donne da banditi». Comunista per tradizione e convinzione, allontanatosi dalla politica in quegli anni - dal 1968 al 1973 - in cui «ogni fermento a sinistra veniva liquidato come estremismo al servizio dei padroni» e i dirigenti erano così sordi alle critiche «da assomigliare ogni giorno di più al vecchio parroco». Tra il farsi troppo coinvolgere dall'amicizia personale e l'adottare quel larvale cinismo che ha reso potentissimi molti suoi romanzi, Carlotto sposa qui una via di mezzo, indugiando probabilmente troppo sugli anni di formazione, quando per Rossini la montagna era il luogo dei racconti partigiani e il mare (come pure la frontiera da disattendere) «la terra dell'anima». Per timore di invadere il campo, si concede poco spazio, limitandosi (quasi) al ruolo di ghost writer. E' solo pagina dopo pagina, tra descrizioni impietose di sparatorie e confessioni disilluse, che lentamente si delinea la psicologia di un uomo contraddittorio, che da un lato abbandona un amico al suo destino di alcolizzato e dall'altro, per non denunciare i suoi complici, si fa dodici anni di carcere per rapina. «Mi mandarono allo speciale dell'isola di Pianosa per essere rieducato a suon di manganellate e i secondini fecero un buon lavoro». «Mi sento come uno che ha corso tutta la vita senza poter mai guardarsi indietro perché sarei andato fuori strada», ricorda Rossini, senza però identificare il suo deragliamento peggiore con un concetto di delinquenza che da «tenue» era diventato scarsamente romantico, dal contrabbando di sigarette alla rapina e all'omicidio (un regolamento di conti in Spagna).

Il vero trauma insuperabile è - come sempre in Carlotto - l'esperienza carceraria, che ti trasforma in «U.F., uomo finito» e poi in «D.M., devastato mentale, uno di quelli che quando escono dal carcere finiscono per strada a chiedere l'elemosina». «Cosa siamo diventati?», chiede Rossini a Carlotto, ripensando alla loro prigionia. «Dei mutanti. Ma non dobbiamo farci scoprire altrimenti ci abbattono». Anche l'ultimo Rossini è stato un uomo diviso a metà. C'era il delinquente parzialmente redento che frequentava Carlotto e il mondo culturale, vantandosi con le entraîneuse per essere diventato una figura letteraria. Ma c'era anche l'uomo che andava testardamente incontro al proprio destino, senza neanche più voglia di fuggire all'arresto. «Avverto la necessità di conciliarmi. Non con la religione ma con la politica. Voglio morire comunista. E ribelle. Voglio tentare di andarmene pervaso da un senso di appartenenza. Forse è una furbizia per sentirmi meno solo, ma il desiderio è sincero e preferisco il cuore in tumulto e la testa piena di sogni alla rassegnazione e all'urgenza del pentimento».