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Un’altra donna della Ferrante: evoluta,indipendente ed essiccata

Autore: a.b.
Testata: Il Foglio
Data: 8 novembre 2006

Sul sito delle Edizioni e/o trovano spazio e sono benvenute le recensioni ai nostri libri, anche quelle che, come questa, non ci sono piaciute e ci sembrano inutilmente reazionarie e superficiali.
La Redazione delle Edizioni e/o

Nessun dolore quando le figlie partono per non tornare, il Canada è lontano e lei si sente finalmente sollevata. Nessuna nostalgia quando le sente al telefono, ogni giorno: hanno sempre richieste stupide, da ventenni lamentose. Lei ha quasi cinquant’anni ma vuole ancora il suo spazio, la scusa con cui si mollano i fidanzati appiccicosi quando si è giovani. La realizzazione di sé, gli occhi addosso, una vita leggera, quel che le figlie le hanno levato venticinque anni prima, quel che non avrà più. Pensava di potere ottenere tutto, la pancia alta e le forze intere, l’università e un marito grato, la cultura moderna di una che ha lasciato Napoli da ragazzina per non sentire più quel dialetto sguaiato, per non assomigliare alla madre con la licenza elementare. Invece era troppo poco quel che aveva trovato, notti insonni, sberle alle bambine, studiare era difficile, l’amore era ridicolo. Una donna presuntuosa (come quella dei Giorni dell’abbandono persa a inseguire ostinatamente altro, e i figli come zavorra doverosa e ostile).

E’ l’ultimo romanzo di Elena Ferrante (che forse è lei o forse è un uomo o un’altra donna o nessuno), La figlia oscura edizioni e/o, esce il 10 novembre, 14 euro e 50), e racconta la donna evoluta, moderna, indipendente e misurata, sfracellata un’altra volta nell’infelicità.

Nei Giorni dell’abbandono era la femmina lasciata, quella che butta a terra la giovane amante del marito e le strappa gli orecchini dai lobi, poi si lascia marcire sul divano, perde i figli al parco, non riesce più ad aprire la porta di casa, non trova il senso dello stare in vita, si sente come “un’etichetta strappata a una bottiglia”, non si lava i capelli. Qui è una bella signora al mare con gli appunti dell’università, il fastidio per i bambini grassi in spiaggia e i napoletani rumorosi, che ricorda le furie giovanili e ha ancora adesso altre furie, sa le lingue, conosce i libri, ha vestiti eleganti ed è andata volentieri a letto, ragazza, con il grande accademico inglese che aveva citato un suo articolo su Forster a un convegno, facendola impazzire di orgoglio frustrato (“... irraggiavo godimento contro la mia stessa volontà, sussurravo frasi affettuose, rispondevo ad allusioni oscene e alludevo a mia volta oscenamente”).

Le bambine piccole, l’ambizione, il soffocamento, le balle sull’indipendenza. “Le bambine mi fissavano. Sentivo i loro sguardi che volevano ammansirmi, ma più forte sentivo il fulgore della vita fuori di loro, nuovi colori, nuovi corpi, nuova intelligenza... e niente, niente che mi paresse conciliabile con quello spazio domestico dal quale entrambe mi fissavano in attesa. Ah, renderle invisibili, non sentire più le loro richieste della carne come domande più pressanti, più potenti di quelle che venivano dalla mia”. Se ne andò, per tre anni non le vide né sentì mai, nemmeno una volta, fuggì dalla prigione, cercò qualche fulgore che non trovò.

E adesso che ricorda, spiando al mare un’altra madre giovane e bella, con un costume elegante, un marito volgare e l’aria inquieta (è tutto già pronto per un altro film con Margherita Buy, in effetti), non si sente nemmeno stupida, ma solo “una che si stava conquistando la sua esistenza” e che si è riscattata col ritorno amorevole. Anzi vorrebbe consigliare, spiegare come va il mondo alla bella ragazza troppo poco moderna e consapevole, aiutarla a fuggire, a studiare, insegnarle a parlare senza accento, allontanarla dalla bambinetta lagnosa e dai parenti grassi. Farla diventare come lei, evoluta ed essiccata.