E' come se Elena Ferrante avesse scritto un unico libro. Una storia che si può
vedere da diverse angolazioni e di cui quest' ultimo pezzo, La figlia oscura, è
il più bello.
Una donna lasciata dalle figlie che raggiungono il padre in Canada,
spia un rapporto madre-bambina sulla spiaggia dove si sta riposando dalle sue
fatiche di donna per cercare - come si usa dire - di ritrovarsi. La scena unisce
donne presenti, passate e future, come sono Leda, le sue figli assenti, Nina e
sua figlia Elena, con le sue prove generali d' affetto materno espletate nei
confronti una bambola brutta e coperta di segni di biro. L' oggetto che incarna
l' amore di madre e figlia, con cui Leda le ha viste giocare irritandosene, la
bambola, la indurrà a far vagare la memoria nel rapporto passato con le sue
ragazze.
Quella bambola finirà per essere rubata e nascosta, come a volersi
riappropriare di un catalizzatore, di un simbolo che in quella lingua obsoleta
che la voce narrante dice di amare di più, il napoletano "tenero del gioco e
delle dolcezze", si chiamava "mammuccia". Intorno a quell' essere di plastica
si formano concrezioni di amore, disamore, le prime incomprensioni di un
rapporto complesso e difficile fin dalla notte dei tempi.
Leda ha abbandonato
le sue figlie quando avevano quattro e sei anni, lasciate al padre - con una
parentesi dedicata a Napoli, città che Leda (anche quella) ha abbandonato per
Firenze. Ora le figlie hanno abbandonato lei, che le ha così "perse nel futuro",
anche se non prova dolore.
In questa calma tempesta degli affetti, qualcosa ci
riporta al personaggio di Laura Brown, la casalinga repressa che nel film The
hours legge Mrs Dalloway, amaro capolavoro di Virginia Woolf, e abbandona
il figlio destinato quarant' anni dopo a morire di Aids nella storia-cornice dell'
omonimo libro di Michael Cunningham. Ora che non le ha più, Leda passa in
rassegna le cattiverie fatte alle sue figlie. Cattiverie servite a contraccambiare
un gesto di bambina irriguardoso o un piccolo egoismo, di quelli comuni tra
figli e genitori. Un atto che a lei sembrava di ingratitudine somma, mentre la
mamma toglieva tempo alla sua affermazione nel lavoro per dedicarsi a quei
piccoli esseri che aveva messo al mondo. La sua prole l' aveva lasciata al
padre "per stanchezza", un po' come aveva fatto Laura Brown, anche nella
magistrale interpretazione di Julianne Moore, ma poi "sempre per amor mio",
e non per altruismo materno, era tornata.
Elena Ferrante continua a restare
lontana dai vortici mediatici, nascosta dietro una normalità che suona ancor
più misteriosa, e buon per noi, se questo dà libri come La figlia oscura.
Ancora più sentito e profondo, questo romanzo che si legge in tre ore: perché,
anche se non siamo stati "madri", tutti però siamo stati figli. E per dircelo, l'
autrice di I giorni dell' abbandono, La frantumaglia e L' amore molesto
che ispirò il più bel film di Mario Martone, affina una lingua compiutamente
letteraria ("quel suo voler bene gassoso" riferito alle coccole che la bambina fa
alla sua bambola; "mi sorrise con uno sguardo smerigliato": poco oltre
smerigliato sarà il vetro che, sbattendo la porta in un momento di
sproporzionata rabbia Leda farà cadere addosso a una delle sue figlie).
Ma una
lingua che serve anche a creare identità tra i personaggi: Lenuccia, Nina,
Leda, Nani (bambina, madre, protagonista e bambola) nell' assomigliarsi
foneticamente in quel gergo degli affetti, sono in fondo i nomi di una sola
persona, riflessa con tutte le sue universali contraddizioni nel rapporto-chiave
del mondo.