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Mandato di cattura

Autore: Gianfranco Capitta
Testata: Il Manifesto
Data: 2 febbraio 1995

Da una parte è un sollievo, per la generazione che ne ha seguito con trepidazione impotente e amara le vicende lungo una quantità raccapricciante di anni, leggere un happy end, per quanto ingiusto, a quella storia. Dall'altra, scontata quell'amarezza e l'orrore e le miserie della situazione generale, è un vero divertimento ripercorrere i teatrini che Massimo Carlotto ha inscenato in successione rapidissima, da una città all'altra, da un paese o un continente all'altro, per sfuggire a una cattura che, per quanto immeritata, gli stava sul collo. A bout de suffle, potremmo dire, per restare nel gioco di rappresentazioni che gli fa intitolare il racconto di questa esperienza come un famoso telefilm americano anni '60 con David Janssen: Il Fuggiasco.

Probabilmente la voglia di viverla o riviverla così teatralmente gli è venuta dopo, come nelle novelisation che spesso trasformano in libro (e speriamo in best seller) sceneggiature che hanno già trionfato al botteghino. Nel racconto di Carlotto però, quello che attrae e avvince (come fosse un giallo di pura fiction) è proprio l'intreccio tra la cornice che tutti abbiamo vissuto (la strategia della tensione, la repressione, l'ossessione poliziesca, il degenerare dei rapporti tra stato e "movimento" lungo gli anni di piombo, ma nello stesso tempo l'illusione e la scoperta, e la necessità, di altri mondi più o meno esotici), insomma la nostra autobiografia collettiva, e insieme una vicenda dolorosa e solitaria come quella di salvare la propria esistenza messa a repentaglio da un'accusa non vera. Tanto solitaria che subito in apertura di libro, apprendiamo la fine di un rapporto sentimentale che coincide con il ritorno a casa, nel senso della prigione, del fuggiasco. La storia giudiziaria pubblica di Massimo Carlotto è fin troppo nota per doverla raccontare:da quando nel gennaio del 1976, a diciannove anni, quello studente padovano di Lotta continua fu accusato dell'omicidio di una giovane amica, fino alla grazia concessa da Scalfaro nell'Aprile del 1993, il "caso Carlotto" ha percorso un contorto, e per questo davvero straordinario, iter attraverso tutti i possibili e anche meno comuni gradi della giustizia italiana. Imbattendosi in presidenti che andavano in pensione (così da far ricominciare il processo da capo davanti a un'altra corte) o in tribunali della repubblica che non rispettavano i dettati, emessi per l'occasione specifica, della Corte Costituzionale. E perfino, dato l'interminabile serpente di anni, nel passaggio dal vecchio al nuovo codice penale.

Può sembrare una esagerazione, o una parossistica deformazione. Invece no, al massimo è un caso esemplare per far riflettere, tanto più ora che la giustizia è diventato campo comune di gioco per ingerenze politiche o per il riciclo di eterni trasformismi. Esemplari però sono anche la forza e l'ironia con cui Massimo Carlotto ha voluto raccontare e ricostruire la propria esperienza. Senza nessun piagnisteo, nessuna recriminazione, nessun moralismo, soprattutto nessuna eccezionalità (il rischio della commozione rabbiosa si affaccia solo davanti alla scarna cronografia dei fatti messa in appendice).

Lui non è papillon, i luoghi dove lui fugge e si nasconde sono quelli del turismo e delle mitologie di tutti. Lui però ce ne mostra un altro volto, certe pieghe vissute dall'interno, oltre un sipario in cui lui, per sopravvivere, è costretto a mettere in scena le sue piccole, continue rappresentazioni. Divertendosi quasi a essere ora il francese Bernard e poco dopo il belga Gustave. Cambiandosi in pochissimo tempo abiti e connotati, accento e personalità. Convinto forse, nel profondo, dell'inutilità di quell'incessante trasformismo rispetto al reale pericolo dell'Interpool e dei mandati di cattura, eppure cosciente di quella stessa necessità innanzitutto per sé, per restare vigile, per non lasciarsi sconfiggere dall'insensatezza di quella persecuzione. Non a caso a tradirlo sarà proprio un avvocato faccendiere cui si era rivolto, e per un pugno di dollari. E il ritorno a Milano dalla latitanza avrà il coup de theatre di un ordine di carcerazione che si sarebbe forse smarrito per sempre, se lui stesso non l'avesse incautamente reclamato.

Qualcuno volendo, e non del tutto a sproposito, potrebbe usare il fatidico aggettivo "Kafkiano", ma rispetto alla Praga assoluta delle allucinazioni di Kafka, lo scenario di Carlotto è perfino più familiare. C'è il Messico chiassoso, esaltante e schizofrenico dell'assassinio di Trockij e delle sue conseguenze nella sinistra messicana; ci sono atmosfere crudeli e solidali di una Pigalle parigina di emigrazione antifascista anni '30; perfino certe calure basche di una Spagna "dopoguerra civil" o di certi racconti di Rossanda e di Semprun. Ma soprattutto c'è, tra un attacco di bulimia e una terapia contro l'ipertensione, un training continuo al "fregolismo", la necessità di imparare un ruolo, dimetterlo un quarto d'ora dopo per tornare subito al precedente. Così che il fuggiasco può essere letto anche come un romanzo di formazione (e deformazione), di una vita costretta, per conoscere e continuare, a ordinarsi come un repertorio. Cosa che non vale solo per chi ha pendenza penali impellenti. Queste possono essere semplicemente lo strumento di accelerazione di un processo, volenti o nolenti, spesso necessario.