Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Amara Lakhous: “Io, scrittore italiano nato in Algeria”

Autore: Vittorio Bonanni
Testata: Liberazione
Data: 26 settembre 2006

Quando, nel 1957, uscì Quer pasticciaccio brutto de via Merulana nessuno avrebbe potuto immaginare che quasi cinquant’anni dopo quel libro sarebbe stato evocato dal racconto di un giovane scrittore e antropologo algerino, da dieci anni trapiantato in Italia. Stiamo parlando di Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio di Amara Lakhous, uscito quest’anno per le Edizioni e/o (pp. 189, euro 12,00), giunto rapidamente alla sua quarta ristampa, un intrigante “noir” la cui trama si basa sull’omicidio di un personaggio soprannominato “Gladiatore” e si sviluppa nel quartiere multietnico di Roma per eccellenza, ovvero piazza Vittorio.

Un vero successo editoriale, ancora più straordinario se pensiamo che il racconto realizzato in italiano (anche se la prima versione è stata pubblicata nel 2003 in Algeria con il titolo Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda) si inserisce a pieno titolo nella letteratura del Bel paese pur essendo stato scritto da uno straniero. La prima volta insomma che uno scrittore nato fuori dai confini nazionali, esattamente ad Algeri nel 1970, scrive un testo che può essere considerato italiano a tutti gli effetti.

«Per me è una grande sorpresa - dice Amara Lakhous - perché non mi aspettavo di entrare a far parte della letteratura italiana. Anche perché vivo in Italia da dieci anni e mi sono reso conto che qui c’è un’idea fissa dell’immigrazione, a prescindere se si è di destra o di sinistra, e cioè quella di considerare l’immigrato come un ospite e non come un futuro potenziale cittadino. Che cosa vuole dire, per esempio, rinnovare il permesso di soggiorno per sei mesi o per un anno? Vuol dire che sei provvisorio, che oggi sei qui ma poi tornerai a casa tua.»

Da qui nasce la sua sorpresa... Certamente, sono arrivato alla conclusione di essere appunto un ospite. E quando poi mi hanno invece considerato un “autore italiano” e nella classifica dei libri mi sono trovato nella narrativa italiana e non straniera, allora lì mi sono stupito. Mi sono chiesto se qualcosa stava cambiando, anche in Italia.

Lei addirittura si definisce “gaddiano”... Il paragone è stato fatto fin dalle prime recensioni del mio romanzo per diverse ragioni. Innanzitutto il titolo, un titolo strano che appunto può essere definito “gaddiano”, che richiama in qualche modo il romanzo di Gadda. L’altro punto in comune è la vicinanza dei luoghi dove sono ambientati i due romanzi. Piazza Vittorio è molto vicina a via Merulana. Poi entrambi gli scritti sono stati definiti dei “gialli”, anche se quello di Gadda per me è un “giallo” metafisico, dove alla fine anche l’assassino resta un mistero, mentre nel mio ad un certo punto i conti tornano. Rivendico comunque il fatto che Gadda per me sia un modello per diverse ragioni: nella ricerca di un linguaggio musicale attuata lavorando sui dialetti e sulle cose dette nella vita di tutti i giorni. Lo scrittore italiano, per realizzare Quer pasticciaccio si è fatto aiutare da un poeta romano per l’aspetto che riguardava le conversazioni in dialetto. Io stesso per scrivere le parti in dialetto ho fatto la stessa cosa, mi sono fatto aiutare da napoletani, da milanesi, ho insomma seguito lo stesso metodo. Credo che la grande lezione di Gadda sia propria questa: lo scrittore per essere al passo dei cambiamenti linguistici deve ascoltare la gente che parla. Quando prendo l’autobus in qualche modo faccio la spia, sono attento alle conversazioni, alle metafore, alle immagini nuove. E lo scrittore deve fare i conti con questa realtà linguistica importante.

Se lei è diventato uno scrittore italiano bisogna rimettere in gioco la questione dell’identità,non crede? Già nel mio romanzo, nel primo capitolo, dove protagonista è un iraniano, ci si pone la domanda “ma chi è l’italiano?”. E’ quello che ha un passaporto italiano, che è nato in Italia, che ha un nome italiano? E entrando nel merito, chi è lo scrittore italiano? Uno nato in Italia con nome italiano oppure è sufficiente scrivere in italiano? Forse questa è diventata la differenza fondamentale, la discriminante.

Anche le modalità con le quali è stato accolto il libro marcano una differenza con il passato... Certamente ho trovato una grandissima accoglienza sia di critica che di pubblico. Il mio romanzo è stato recensito su tantissimi giornali e riviste, ho vinto finora due premi letterari importanti, il Flaiano, nel 2006, e un altro fondato da Leonardo Sciascia che si chiama “Racalmare - Leonardo Sciascia”. Il libro è ormai giunto alla sua quarta ristampa e sono stati venduti i diritti per realizzare delle traduzioni in Francia e in Olanda e prossimamente anche in altri paesi. Sono stati ceduti anche i diritti per realizzare un film. Questo successo è il segnale che l’Italia sta cambiando, non è più, parafrasando un bellissimo libro di Stefan Zweig, “il mondo di ieri”.

Nel suo libro c’è dunque un paese proiettato nel futuro... Con Scontro di civiltà ho voluto certamente raccontare questa Italia del domani e devo dire, con molta modestia, che tantissime questioni affrontate nel mio libro sono di grande attualità. Un esempio molto semplice: nel mio romanzo metto in guardia contro l’esclusione delle donne. Sul fatto cioè che tantissime bengalesi, pakistane, o anche di altre nazionalità, siano escluse, non conoscono l’italiano e molto spesso hanno bisogno di un interprete, magari un figlio o un altro parente. La stessa cosa successa a Brescia, all’indomani dell’uccisione di Hina, la ragazza assassinata dal padre: nel corso di una conferenza la madre ha parlato in urdu e il figlio faceva da interprete. Casi di questo tipo li ho visti prima di quell’episodio a piazza Vittorio. Per questa ragione sostengo che quel posto è un laboratorio, è l’Italia del futuro, nel bene e nel male naturalmente, con tutte le contraddizioni del caso. Andando a piazza Vittorio si può veramente scoprire il mondo. Ma bisogna conoscere le persone, chiedere come si chiamano, capire la loro cultura e la loro storia, e non starci poche ore come un turista, magari per mangiare in un ristorante e poi andare via.

La conoscenza dell’altro sembra essere un momento essenziale per la reciproca comprensione... E per la costruzione di una società nuova. Ed è questa la grande questione. Recentemente Berlusconi ha parlato al meeting di Rimini organizzato da Comunione e Liberazione, dell’Italia cattolica degli italiani. Si tratta di un discorso assurdo perché il futuro multietnico dell’Italia è evidente, è inevitabile. Soltanto un regime dittatoriale potrebbe, forse, garantire un’Italia monoculturale come la vorrebbe Berlusconi.

In questi ultimi anni in Italia si parla molto del fallimento del multiculturalismo, magari prendendo ad esempio casi di altri paesi, come la Gran Bretagna,dove giovani islamici residenti lì da diversi anni stavano organizzando degli attentati.Come valuta questo dibattito? Intanto quel caso che lei ha citato riguarda comunque solo una minoranza. E poi parlando di integrazione c’è un particolare molto importante che va affrontato con serietà e riguarda il relativismo culturale che in Gran Bretagna si è tradotto nel modello comunitarista, ovvero dare alle comunità il potere dell’autogestione. Un modello che mi trova contrario. Ci sono delle regole comuni che vanno comunque rispettate. Alcune comunità, per esempio, praticano l’infibulazione, un vero e proprio atto di violenza contro il corpo delle donne. Al contrario quando i musulmani reclamano delle moschee per poter esercitare il proprio diritto alla preghiera, sono favorevole perché si tratta appunto di un diritto previsto della Costituzione italiana.

Nel suo romanzo i protagonisti italiani provengono da parti diverse dell’Italia. Che cosa ha voluto comunicare con questa scelta? In Scontro di civiltà l’aspetto multietnico riguarda anche gli italiani perché io considero etnicamente diversi i napoletani dai milanesi. Questo non vuole dire giudicare gli uni meglio degli altri. In questo senso la diversità per me è una risorsa e non una minaccia. E come avere a disposizione tanti specchi. Per questa ragione gli immigrati costituiscono una ricchezza e per la cultura italiana rappresentano una grande opportunità. Con la cosiddetta letteratura dell’immigrazione arriva appunto un modo nuovo di guardare alla realtà, perché chi viene da fuori nota cose che gli altri, stanziali, non notano, ha energie diverse, uno sguardo fresco. Gli immigrati hanno questa capacità, in particolare gli scrittori, di osservare la società italiana da fuori. E poi c’è il grande contributo linguistico. Io, alla fine, che cosa ho fatto? Ho tradotto la mia lingua d’origine, la lingua araba, in italiano, inventando un italiano “arabizzato”. Ho in qualche modo fecondato l’italiano. Non a caso una studiosa italiana, Maria Nigro, ha realizzato una tesi di laurea sul mio lavoro. Ha preso il testo in arabo e ha fatto uno studio comparativo con la traduzione in italiano. E sono uscite fuori cose interessanti, immagini nuove, metafore che io ho portato grazie alla lingua araba. E lo stesso vale per gli scrittori di altre nazionalità, tutti porteranno nuovi elementi di arricchimento ad una lingua ormai impoverita come l’italiano e fortemente condizionata dal linguaggio televisivo.