Morgan Sportès è uno scrittore francese, nato ad Algeri nel 1947. Ha pubblicato principalmente non fiction novel basate sulla ricostruzione di fatti di cronaca e con il suo lavoro ha ottenuto il plauso di numerosi intellettuali: da Claude Levy Strauss a Guy Debord, di cui è anche stato buon amico. L’adattamento cinematografico di un suo libro, L’Appat, diretto da Bertrand Tavernier ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino 1995. Vivendo a Parigi ed essendo l’antropologia e l’etnografia urbana tra i suoi principali interessi, era quasi inevitabile che la sua penna incontrasse più volte le “famigerate” banlieues locali.
Il racconto di una violenza efferata, consumatasi sei anni fa in una di esse, è al centro di Tout, tout de suite. Uscito lo scorso anno in Francia per Fayard, il libro ha vinto il premio Interallié, uno dei più importanti riconoscimenti letterari e giornalistici del paese. E/O lo ha appena pubblicato in Italia con il titolo Tutto e subito. Racconta le “gesta” della cosidetta “bande des barbares”, un gruppo multietnico di giovani criminali che, nel gennaio del 2006, sequestrò e torturò, per ventiquattro giorni e fino alla morte, il giovane ebreo francese di origini marocchine Ilan Halimi. Tutto e subito è un romanzo/inchiesta che ricostruisce i fatti a partire dai riscontri dell’indagine e si inserisce nella migliore tradizione del giornalismo narrativo e della letteratura non-fiction. L’ho apprezzato molto e così qualche giorno fa ho telefonato a Sportès a Parigi e, nonostante il mio francese un po’ arrugginito, abbiamo chiacchierato per un’ora e mezza del libro e del contesto che descrive.
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Bonjour monsieur Sportès, proverò a intervistarla in francese, anche se devo confessarle che è un po’ che non lo parlo …
Oh sì… per me sarebbe molto meglio, purtroppo non conosco l’italiano e di sicuro il suo francese non può essere peggiore del mio inglese.
Ahah ok, dunque… beh… prima di tutto volevo farle i complimenti. Il libro è davvero brillante, asciutto e privo di morali prefabbricate nonostante la spinosità della vicenda. Come saprà, in quarta di copertina dell’edizione italiana c’è un paragone di un certo peso con A Sangue Freddo, che immagino sia un riferimento fondamentale per chiunque scriva non-fiction novel. Mi chiedevo se per lei ne esistono altri…
Sicuramente Truman Capote è imprescindibile. In questo caso però, anche per i temi che tratto, una notevole fonte d’ispirazione sono stati gli scritti di Primo Levi su Auschwitz. Se questo è un uomo è un libro che insegna l’importanza di scrivere con lucidità anche delle vicende più disumane, adottando uno stile fattuale e il più possibile privo di retorica.
Immagino che per ricostruire mesi di attività della “bande des barbares”, abbia dovuto compiere un grosso lavoro di documentazione. Quanto tempo ha richiesto questa fase preliminare?
Nel complesso ho lavorato al libro per due anni e mezzo ma sono almeno dieci che mi interesso alle banlieues. Ho passato e passo ancora moltissimo tempo al Palais de Justice di Bobigny e di Bagneux o in altri palazzi di giustizia nella cintura parigina. Ogni volta mi torna in mente il commissariato del Bronx raccontato da Tom Wolfe nel Falò delle vanità. È un vero e proprio “viaggio al termine della notte” per dirla con Celine: un’esperienza che ti fa toccare con mano fino a che punto la situazione sia ormai drammatica. Comunque, nel corso di tutti questi anni ho incontrato e intervistato molti avvocati, giudici, inquirenti, indagati e ho raccolto e letto moltissimi dossier. A ogni modo, diamoci pure del tu.
Ok… perché hai scelto di raccontare proprio l’omicidio di Ilan (Elie nel libro, ndR)?
Perché credo che il caso della “bande des barbares”, per come si è svolto e per tutte le sue implicazioni simboliche, sia davvero un fatto fuori dall’ordinario. Che parla completamente il linguaggio di questa epoca e della Storia che stiamo vivendo; rappresenta cioè appieno il frutto impazzito di quella che Debord chiamava la Società dello spettacolo.
Cosa intendi?
I giovani che ho raccontato nel libro vivono in uno stato di totale alienazione, in una specie di realtà distorta dal filtro dei desideri e dei cliché della società consumistica e mediatica. Sono privi di radici, di cultura di base e del tutto inconsapevoli della portata dei loro gesti. Ma ovviamente la colpa non è solo del consumismo. Ci sono altri fattori da tenere in considerazione: la mondializzazione per esempio. Il padre di Youssouf Fofana (Yacef nel libro, ndR), il leader della gang dei barbari, era un cittadino della Costa D’Avorio che nel 1964, all’epoca di Pompidou quando la Francia accoglieva gli immigrati a braccia aperte come forza lavoro a costo contenuto, ha scelto di emigrare a Parigi e vi ha trovato infine un impiego. Non bisogna dimenticare che la scelta della Francia di aprire le proprie porte a così tanta manodopera d’importazione è stata una scelta economica e politica molto precisa e deliberata – e forse anche conveniente all’epoca – ma del tutto miope sul lungo periodo. Negli stessi anni altri paesi hanno preso strade diverse puntando sulla modernizzazione e robotizzazione delle catene di montaggio. Comunque, il padre di Youssouf/Yacef ha vissuto una vita onesta seppure non particolarmente agiata. Uno stile di vita che però a suo figlio, ormai francese di seconda generazione, non bastava più considerando anche i modelli che riceveva dall’esterno. Come molti altri suoi coetanei, il suo motto è stato immediatamente “Tutto e subito” e non ha mai nutrito nessuna fiducia nella possibilità di emanciparsi con l’istruzione o con il lavoro. E del resto, anche se ne avesse nutrita, difficilmente avrebbe trovato occupazione visto che, passati quarant’anni dall’ingresso del padre di Youssouf, la Francia è ormai un paese sulla via della completa de-industrializzazione e/o della de-localizzazione della forza lavoro. Gli strati più poveri delle nostre periferie ormai vivono in condizioni da quarto mondo e l’unica “industria” che ancora può promettere di arricchirli è quella dei traffici: droga e armi certo, ma anche sigarette, elettrodomestici, alcolici, profumi nel caso dei pesci medio/piccoli.
Oppure estorsioni, sequestri e ricatti come per la bande des barbares. Mi ha colpito il fatto che le vittime scelte, nei vari tentativi di rapimento andati a vuoto precedenti a quello di Ilan, fossero quasi tutte di origine ebraica, spesso ebrei di periferia non particolarmente benestanti oltretutto, per il semplice fatto che nella loro mente valeva senza eccezioni l’equivalenza “ebreo=denaro”. Un altro cliché, si direbbe.
Esattamente. Bisogna tenere presente che la maggior parte di questi ragazzi sono del tutto sradicati e quindi la loro percezione della realtà è fortemente costruita attraverso stereotipi o “per sentito dire” che non sottopongono però ad alcuna verifica empirica. Ma oltre all’equivalenza con il denaro c’è dell’altro. Prendi per esempio il caso del personaggio di Kid nel libro. Insieme al boss Youssouf/Yacef è l’unico al quale, al momento del processo, è stato riconosciuto il “movente antisemita” come aggravante alla condanna. All’epoca dei fatti aveva diciassette anni e proveniva da una famiglia mista, il padre era cattolico e la madre musulmana, entrambi di origine africana. Una via di mezzo che gli ha reso difficile farsi accettare da tutte e due le comunità. Una volta abbracciato definitivamente l’Islam, per lui l’antisemitismo è diventato un modo di costruirsi un nemico e per affermare una parvenza d’identità, si trattava di un odio primitivo che aveva poco a a che fare con l’ideologia, la religione o la politica, in cui canalizzava il suo carattere iperattivo e le sue pulsioni violente.
Tutti i personaggi e le situazioni che descrivi sono reali o hai aggiunto, tolto o modificato qualcosa?
Non ho aggiunto né personaggi, né modificato situazioni. Tutto quello che ho scritto è documentato nel dossier di duemila pagine dell’inchiesta. Poi ho svolto un lavoro sul campo intervistando le famiglie dei “barbari” e delle loro vittime, recandomi fisicamente nei luoghi che descrivo. Il lavoro letterario sta tutto e soltanto nella mise-en-scène ma del resto, come diceva Godard, “il montaggio è metafisica”.
Hai incontrato anche qualcuno della banda?
Tramite Alice, la nipote della moglie di Debord, che fa l’avvocato ed è riuscita a incontrarlo in prigione, ho avuto modo di avviare una breve corrispondenza con Youssouf. Alice che lo ha conosciuto personalmente ne è rimasta molto turbata, nel giro di soli due incontri lui ha cercato più volte di manipolarla, di convincerla ad aiutarlo ad aprire un sito internet da cui diffondere video-messaggi intrisi di fanatismo. Ora si crede una specie di Osama Bin Laden.
Com’è andata la tua corrispondenza con lui?
Non benissimo eheh. Nella seconda lettera che mi ha mandato c’era scritto: “Ti ho prenotato un volo di seconda classe per il Giorno del giudizio” o qualcosa del genere (Ride). Qualche tempo dopo, dal carcere ha caricato un video su Youtube in cui lancia una Fatwa a una trentina di persone e tra queste ci sono anche io. Credo sia davvero molto disturbato, forse schizofrenico, e che difficilmente potrà mai reinserirsi nella società. Alterna momenti in cui si usa “parole vuote” da businessman occidentale, come quando con la banda parlava di “diversificare gli investimenti” o “di cambiare strategia di comunicazione”, ad altri in cui si crede una sorta di profeta dell’Islam in lotta per la causa della Costa d’Avorio.
Una delle prime opere a portare l’attenzione del mondo sulla situazione delle banlieues è stata La Haine di Matthieu Kassowitz. Un film del 1995 quindi, come si è evoluta la situazione da allora?
Permettimi di dire che ho sempre pensato che La Haine fosse un film eccessivamente manicheo nel dipingere tutti i giovani come vittime della società e tutti i poliziotti come carnefici. Esistono molte più sfumature di così. Poi, bisogna per esempio sapere che ormai sia la polizia sia gli amministratori di giustizia locali sono soverchiati per numero e hanno strumenti del tutto inadeguati e troppo antiquati per fare fronte alle emergenze più calde e quindi in pratica, in molti quartieri, la presenza dello Stato è di fatto impalpabile. La politica si è accorta della situazione solo negli ultimi quindici anni quando forse era già troppo tardi; il processo di disgregazione sociale è iniziato prima, negli anni ’80. Le banlieues erano la cintura operaia delle nostre città ed è difficile promuovere l’integrazione sociale come ha cercato di fare la politica negli ultimi tempi, quando il lavoro inizia a scomparire dal momento che l’iperliberismo globale ha messo in competizione il salariato francese che viene da anni di lotte sociali con la manodopera dell’Est o dell’Estremo Oriente, priva di stato sociale e quindi molto più economica. Venendo meno l’integrazione si entra nella sfera dell’irrazionale e quindi ecco la recrudescenza del fanatismo religioso in varie forme: dall’Islam radicale alle varie Chiese Evangeliche. Dove la disoccupazione galoppa, non è poi così raro incontrare giovani, “gauloises” da sempre – figli o nipoti di ex pescatori bretoni o normanni venuti a Parigi per fare gli operai negli anni ’60 – che hanno cambiato nome per farsi musulmani.
Perché proprio l’Islam radicale? Cosa offre di più di altre religioni? Centra qualcosa il fatto che, attraverso la propaganda e il terrorismo, dà un’immagine di sé fortemente antagonista rispetto al benessere “borghese” a cui non si riesce ad accedere?
Forse, ma non solo. Credo ci sia anche una componente “emotiva” legata all’impressione che le famiglie di immigrati musulmani siano più unite ed affettive. Altre volte invece è semplicemente un modo per essere accettati in qualche gang o dagli amici, figli d’immigrati dal Nord Africa.
Nel 2005, durante le rivolte scoppiate nelle banlieues, Sarkozy disse quella famigerata frase “on va nettoyer au Karcher la Cité” (all’incirca traducibile come “passeremo l’aspirapolvere sulla Città”. Karcher è una marca di aspirapolveri ndR) che fu al centro di molte polemiche perché dava l’impressione di una pulizia sommaria. Il nuovo Presidente Hollande si è mai espresso in merito al tema delle periferie francesi?
No, non mi pare e comunque non credo che sia un problema risolvibile da un singolo paese. La trasformazione delle periferie in slum (a tal proposito consiglio la lettura di Planet of slums di Mike Davis. ndR) non è un problema soltanto francese e va affrontato a livello globale. È una questione di ordine sociale, storico e politico decisiva che va affrontata sul piano delle politiche economiche e sociali internazionali.
A fianco dell’iperliberismo economico, come dicevi all’inizio, ne esiste un altro strettamente legato a esso che si potrebbe chiamare “iperliberismo dell’immaginario”. Intendo quello per cui, attraverso i media e la televisione in particolare, si offre una visione, ancora una volta,”stereotipata” del successo e del benessere; che è poi esattamente quella che spinge Yacef e compagni a volere “Tutto e subito”. Non pensi che già anche solo mettendo dei freni a questo “secondo” iperliberismo e investendo in programmi d’istruzione/formazione, le cose potrebbero leggermente migliorare?
Migliorerebbero ma dubito che si possano mettere dei freni. I media vendono prodotti all’interno delle stesse regole del mercato che valgono per qualsiasi altro prodotto e quindi si affidano, giustamente dal loro punto di vista, a quello che funziona a colpo sicuro. Patrick Le Lay, ex direttore di TF1, una volta ha dichiarato una cosa eloquente che riporto anche in esergo a un capitolo: «Perché un messaggio pubblicitario venga recepito bisogna che il cervello del telespettatore sia disponibile. Le nostre trasmissioni hanno appunto il compito di renderlo disponibile, farlo rilassare tra un messaggio e l’altro e predisporlo al meglio. Ciò che noi vendiamo agli inserzionisti è una frazione di tempo di cervello umano disponibile». Una frase simile equivale praticamente ad ammettere, senza troppi giri di parole, che lo scopo implicito di un programma televisivo è “rincoglionire” le persone e quindi più un programma ha successo e più probabilmente significa che ci sta riuscendo bene.