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Il nuovo cognome: dopo L'amica geniale un altro avvincente romanzo di Elena Ferrante

Testata: L'Unità
Data: 22 settembre 2012

Sarà in libreria nei prossimi giorni e racconta le vicende di Lina e Lenù.. chi uscirà per prima dal quartiere che sembra opprimerle? In questa pagina vi anticipiamo il primo capitolo.

NELLA PRIMAVERA DEL 1966 LILA, IN UNO STATO DI GRANDEA GITAZIONE, MI AFFIDÒ UNASCATOLA DI METALLO CHE CONTENEVA OTTO QUADERNI. Disse che non poteva più tenerli in casa, temeva che il marito li leggesse. Portai via la scatola senza fare commenti, a parte qualche accenno ironico al troppo spago che le aveva stretto intorno. In quella fase i nostri rapporti erano pessimi, ma pareva che li considerassi tali solo io. Lei, le rare volte che ci vedevamo, non manifestava nessun imbarazzo, era affettuosa, mai che le sfuggisse una parola ostile. Quando mi chiese di giurare che non avrei aperto la scatola per nessun motivo, giurai. Ma appena in treno sciolsi lo spago, tirai fuori i quaderni, cominciai a leggere. Non era un diario, anche se vi figuravano dettagliati resoconti di fatti della sua vita a partire dalla fine delle elementari. Pareva piuttosto la traccia di una cocciuta autodisciplina alla scrittura. Abbondavano le descrizioni: un ramo d'albero, gli stagni, una pietra, una foglia con le nervature bianche, le pentole di casa, i vari pezzi della macchinetta del caffè, il braciere, il carbone e la muniglia, una mappa dettagliatissima del cortile, lo stradone, lo scheletro di ferro arrugginito oltre gli stagni, i giardinetti e la chiesa, il taglio della vegetazione a ridosso della ferrovia, i palazzi nuovi, la casa dei genitori, gli strumenti che usavano suo padre e suo fratello per aggiustare le scarpe, i loro gesti quando lavoravano, i colori soprattutto, i colori d'ogni cosa in fasi diverse del giorno. Ma non c'erano solo pagine descrittive. Comparivano parole isolate in dialetto e in lingua, a volte chiuse in un cerchio, senza commento. Ed esercizi di traduzione in latino e in greco. E interi brani in inglese sulle botteghe del rione, sulla merce, sul carretto zeppo di frutta e verdura che Enzo Scanno spostava di strada in strada ogni giorno tenendo l'asino per la cavezza. Etanti ragionamenti sui libri che leggeva, sui film che vedeva nella sala del prete. E molte delle idee che aveva sostenuto nelle discussioni con Pasquale, nelle chiacchiere che facevamo io e lei. Certo, l'andamento era discontinuo, ma qualsiasi cosa Lila imprigionasse nella scrittura assumeva un rilievo, tanto che anche nelle pagine scritte a undici o dodici anni non trovai una sola riga che suonasse infantile. Di solito le frasi erano di estrema precisione, la punteggiatura molto curata, la grafia elegante come quella che ci aveva insegnato la maestra Oliviero. Ma a volte Lila, come se una droga le avesse inondato le vene, pareva non reggere l'ordine che s'era data. Tutto allora diventava affannoso, le frasi prendevano un ritmo sovreccitato, la punteggiatura spariva. In genere le bastava poco per ritrovare un andamento disteso, chiaro. Ma poteva succedere anche che si interrompesse bruscamente e riempisse il resto della facciata con disegnini di alberi contorti, montagne gibbose e fumanti, facce torve. Io fui presa sia dall'ordine che dal disordine e più lessi, più mi sentii ingannata. Quanto esercizio c'era dietro la lettera chemi aveva mandato a Ischia anni prima: perciò era così ben scritta. Rimisi tutto nella scatola ripromettendomi di non curiosare più. Ma cedetti presto, i quaderni sprigionavano la forza di seduzione che Lila spandeva intorno fin da piccola. Aveva trattato il rione, i familiari, i Solara, Stefano, ogni persona o cosa, con una precisione spietata. E che dire della libertà che s'era presa con me, con ciò che dicevo, con ciò che pensavo, con le persone che amavo, col mio stesso aspetto fisico. Aveva fissato momenti per lei decisivi senza preoccuparsi di niente e di nessuno. Ecco nitidisssimo il piacere che aveva provato quando a dieci anni aveva scritto quel suo raccontino, La fata blu. Ecco con altrettanto nitore quanto aveva sofferto perché la nostra maestra Oliviero non si era degnata di dire una sola parola su quel racconto, anzi, lo aveva ignorato. Ecco la sofferenza e la furia perché io ero andata alle scuole medie senza curarmi di lei, abbandonandola. Ecco l'entusiasmo con cui aveva imparato a fare la scarpara, e il senso di rivalsa che l'aveva indotta a disegnare scarpe nuove, e il piacere di realizzarne un primo paio insieme a suo fratello Rino. Ecco il dolore, quando Fernando, suo padre, aveva detto che le scarpe non erano ben fatte. C'era di tutto, in quelle pagine, ma specialmente l'odio per i fratelli Solara, la determinazione feroce con cui aveva respinto l'amore del più grande, Marcello, e il momento in cui aveva deciso, invece, di fidanzarsi col mite Stefano Carracci, il salumiere, che per amore aveva voluto comprare il primo paio di scarpe da lei realizzato, giurando che l'avrebbe custodito per sempre. Ah il bel momento in cui, a quindici anni, s'era sentita una damina ricca ed elegante, al braccio del promesso sposo che, solo perché l'amava, aveva investito soldi in abbondanza nel calzaturificio del padre e del fratello, il calzaturificio Cerullo. E quanta soddisfazione aveva provato: le scarpe di sua fantasia in gran parte realizzate, una casa nel rione nuovo, il matrimonio a sedici anni. E che sfarzosa festa di nozze era seguita, come si era sentita felice. Poi Marcello Solara, insieme a suo fratello Michele, era comparso nel pieno dei festeggiamenti portando ai piedi proprio le scarpe a cui suo marito aveva detto di tenere tanto. Suo marito. Che tipo d'uomo aveva sposato? Adesso, a cose fatte, si sarebbe strappato la faccia finta mostrandole quella orribilmente vera? Domande, e i fatti senza bellurie della nostra miseria. Mi dedicai molto a quelle pagine, per giorni, per settimane. Le studiai, finii per imparare a memoria i brani che mi piacevano, quelli chemi esaltavano, quelli che mi ipnotizzavano, quelli che mi umiliavano. Dietro la loro naturalezza c'era di sicuro un artificio, ma non seppi scoprire quale. Infine una sera di novembre, esasperata, uscii portandomi dietro la scatola. Non ce la facevo più a sentirmi Lila addosso e dentro anche ora che ero molto stimata, anche ora che avevo una vita fuori di Napoli. Mi fermai su ponte Solferino a guardare le luci filtrate da una nebbiolina gelida. Poggiai la scatola sul parapetto, la spinsi piano, poco per volta, finché non cadde nel fiume quasi che fosse lei, Lila in persona, a precipitare, coi suoi pensieri, le parole, la cattiveria con cui restituiva a chiunque colpo su colpo, il suo modo di appropriarsi di me come faceva con ogni persona o cosa o evento o sapere che la sfiorasse: i libri e le scarpe, la dolcezza e la violenza, il matrimonio e la prima notte di nozze, il ritorno al rione nel ruolo nuovo di signora Raffaella Carracci.