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Lenù lo scrittore più grande (e Lila il personaggio più di tutti memorabile)

Autore: Francesco Durante
Testata: Corriere del Mezzogiorno
Data: 14 ottobre 2012

Avent'anni dall'esordio con L'amore molesto, Elena Ferrante— chiunque sia—mi appare oggi chiaramente come il più grande e «classico» degli scrittori napoletani. Storia del nuovo cognome, il corposo secondo volume del ciclo L'amica geniale, lo conferma al di là di ogni possibile dubbio; e qui, rinunciando a riassumere il libro (basta dire che in pratica si tratta della prosecuzione della storia di Lila, l'amica geniale, e di Lenù, la narratrice, ripresa dal momento dello sposalizio della prima a sedici anni, e condotta fino alla prima giovinezza di entrambe), cercherò di spiegare alcuni motivi della centralità di Elena Ferrante nel panorama attuale della letteratura napoletana. Elena Ferrante è uno scrittore «realista » che si muove lungo la via regia della letteratura italiana. I suoi libri hanno un solidissimo impianto narrativo, procedono inesorabilmente—in questo caso più che mai—da alfa a omega e provocano nel lettore un irresistibile processo di identificazione, ciò che lo obbliga a restare incatenato a una pagina che parla in definitiva di ciascuno di noi, perché tutto, della vita che a chiunque può capitare, vi è detto. La narrazione in prima persona, l'intrusione di quell'io che nel Novecento ha scompaginato le strutture classiche del romanzo, è qui perfettamente funzionale alla linearità del racconto, giacché si tratta di un io declinato al passato, e dal quale è stata dunque «disinnescata » la carica eversiva, ma solo sul piano stilistico. Elena Ferrante è «universale». Secondo un principio sempre valido, più è piccolo lo scenario della storia—qui il rione vecchio e le case nuove in prossimità della ferrovia, e la proiezione di avanzamento sociale verso il mitico negozio di scarpe a piazza dei Martiri, in una Napoli entrata negli anni Sessanta con tutto il carico dei suoi sogni di progresso e delle sue contraddizioni arcaiche (mariti che battono le mogli, parenti e conoscenti meravigliati per il ritardo di una maternità che attesti la virilità maschile, e così via)—più questo teatro è ristretto e quasi angosciosamente angusto, più è possibile per il narratore scolpire personaggi che s'imprimono nella memoria come figure per l'appunto «universali». Valide, cioè, anche se tolte da quella scena e proiettate nella vastità del mondo. I personaggi di Storia del nuovo cognome sono così vivi, e anche così esemplari, che ti viene da sospettare che la vita li abbia presi in prestito dall'immaginazione, mentre ti sorprendi a cercare le loro parentele con altre memorabili figure della letteratura d'ogni tempo. I ricchi Solara, per dire, hanno un che di balzacchiano, per non parlare, giusta anche la somiglianza fonetica con il cognome Sedara, di gattopardesco; e Lila, poi, con la sua strenua rivendicazione d'autonomia, è paradigma di un femminile che lotta in cerca di una libertà negata, ciò che, da Emma Rouault in poi, diventerà un caposaldo della narrativa «borghese». Nel caso di Lila, abbiamo però un personaggio che, oltre che di estreme rivolte, è capace anche di apodittiche sentenze, esemplare quella di pagina 77, allorché Lila, parlando al suo antico corteggiatore Marcello Solara, e riferendosi anche alle opinioni di suo marito Stefano, così fa piazza pulita di qualsiasi convenevole: «Di quello che dici tu, di quello che dicono loro, non me ne fotte più niente». E qui veniamo all'aspetto per me più rilevante della questione: la lingua di Elena Ferrante. La sua lingua e quelle di Lenù e Lila sono una cosa sola: a un tempo essenziale ed esaustiva (nelle pagine iniziali di questo libro, tali caratteristiche emergono con particolare evidenza nella descrizione del povero sesso rubato che Lenù consuma col fidanzato Antonio, o nel racconto del viaggio di nozze di Lila). È un bellissimo italiano, screziato conmolta parsimonia di elementi dialettali, secondo una sensibilità che si riscontra anche in altri autori che dovrebbero essere più o meno coetanei della Ferrante—penso soprattutto a quel Domenico Starnone che ogni tanto viene sospettato di essere lei, o almeno «una parte» di lei; ma potrei fare pure i nomi di Fabrizia Ramondino e, ma solo per certi versi, di Erri De Luca—i quali, per forma mentis o educazione, non hanno ritenuto di aderire all'espressionismo spinto emistilingue che caratterizza, dagli anni Novanta in poi, tanta parte della letteratura di Napoli. Ferrante specifica di continuo, nel romanzo, se un personaggio sta parlando in italiano oppure in dialetto, e ci dice perfino con quale tonalità di dialetto lo fa. Ce lo dice, appunto, ma non lo fa emergere dalle parole, il suo uso del dialetto riducendosi a qualche sparso senhal, di solito particolarmente categorico (sono, per dire, i casi in cui Lila designa come strunz questo o quel figuro).