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Capelli blu

Autore: Lorenzo Mari
Testata: Club Dante
Data: 5 novembre 2012

Più che vezzo apparizione del perturbante, per i Capelli blu di Valerio Nardoni vale forse la definizione di “sintomo che non si accontenta di essere unicamente sintomo”.

Periodicamente, infatti, i capelli tinti di blu (ma saranno veramente tinti? ci si chiede infine, e non è domanda da poco) fanno capolino per tormentare la vita di Jilium, soprannome evidentemente fiorentino e al tempo stesso anglicizzato di un cassiere di supermercato che vive un'esperienza bassa e contemporaneamente alta - ad altezza di visuale, perlomeno, come avanza la golosa quarta di copertina, di Paul Auster remixato con i fratelli Coen e Paolo Conte.

Cosa portano alla luce quei capelli blu? Il sintomo si dipana nel corso della narrazione, certamente, ma, al tempo stesso, il paradosso vuole che una narrazione che parte da un sintomo non svolga mai completamente il proprio gomitolo. E così il filo s'interrompe, si confonde, il narratore salta dalla prima alla terza persona, la tessitura narrativa è inframmezzata da indicazioni di scena a mezzo tra la drammaturgia teatrale e la scrittura cinematografica. Si direbbe una narrazione scollacciata, se l'instabilità mentale di Jilium e di tutto il suo contorno narrativo non giustificasse pienamente questa precisa scelta stilistica, e molto altro del buono che l'esordio narrativo di Valerio Nardoni offre al lettore.

Il sintomo che non è soltanto sintomo, in barba a molta critica letteraria italiana contemporanea, non riguarda infatti il solo Jilium, ma sorregge la struttura generale del romanzo breve, o racconto lungo, di Nardoni. Concerne forse, in primo luogo, la condizione sociale ed esistenziale – non adeguatamente perimetrabile, né fotografabile – di un giovane che si può, peraltro, presumere della stessa età dell'autore. A questo proposito, va detto che Jilium non è alter ego dell'autore, in nessun modo autobiografico, ma in senso strutturale, di legittimazione ultima, quasi metafisica, della narrazione – delizia teorica che pochi narratori, in assoluto, si possono permettere.

Concerne anche il suo essere laureato in Storia dell’Arte e cassiere, il suo non essere né choosy né disperato, ma votato direttamente a un'esperienza schizofrenica della propria soggettività – l'identità di Jilium essendo, come mostra già lo stesso soprannome, smarrita.

È un baratro che non si vorrebbe aprire, che fa paura, che le narrazioni sociologiche del precariato evitano, o melo-drammatizzano, ma che i capelli blu continuano, imperterriti, traslucidi, a segnalare. Sta qui la forza di un romanzo breve, o racconto lungo, che, se in alcuni passaggi esagera forse nella propria schizofrenia letteraria, passando ai toni di un film ultra-toscano alla Ceccherini, o a una colonna sonora ammirevole, ma egualmente delirante (Adriano Celentano, con un pezzo sconosciuto ai più, “30 donne del West”, Faith No More, Claudio Lolli, etc.), in altri si rifà al lavoro dell’ottimo scrittore spagnolo – Valerio Nardoni è peraltro eccellente ispanista e traduttore – Juan Andrés García Román.

Una forza che sa trascendere il minimalismo di certi tocchi che ora nella prosa italica ‘ci vogliono sempre’ – le considerazioni sul dialogo ininterrotto dei cassieri del supermercato, per intenderci: azzeccate, ma  troppo ammiccanti – per offrirci uno spaccato di realtà che è una ferita sanguinante. E sanguina blu.