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Romanzo democristiano: quella storia di potere all'italiana

Autore: Filippo Ceccarelli
Testata: La Repubblica
Data: 8 gennaio 2013

Una confessione democristiana. Cruda, cinica e sboccata come solo a Roma, ma finalmente vera e ancora straordinariamente viva. Perfino tenera, a pensarci bene, per chi abbia conosciuto le fatiche improbe del potere, l'«ambizione che affama più della miseria», e quindi gli arcani di un consenso che fu al tempo stesso umile, sfrontato e truffaldino, costruito com'era dentro le urne fasulle nei cessi delle sezioni; ma anche a suo modo sacralizzato dalla febbre elettorale, su e giù nelle borgate dell'abusivismo, in Ciociaria, sul litorale, l'agro romano battuto palmo a palmo per piazzare la bandierina dell'agognata preferenza su sagre, battesimi, tribù, compari, comparelli, pure lusingando e insieme tenendo a distanza i commercianti di voti, gli impostori, i delinquenti, i pazzi, i rompicoglioni, i paraculi... E quando si arriva alla fine del romanzo di Alessandra Fiori, Il cielo è dei potenti, pubblicato da e/o (320 pagine, 18 euro), l'assalto dei ricordi domina su qualsiasi bilancio su quell'epopea. Dietro le maschere e i cognomi contraffatti si riconoscono i protagonisti dello scudo crociato capitolino com'erano veramente: il morbido e tenace Petrucci, Evangelisti detto "lo Sguincio", Sbardella ignorante, brutale e perfino generoso, gli Antoniozzi, nel senso di padre e figlio e nutrito elettorato calabrese. La "zampa nel piatto", la finta telefonata a "fotticompagno", il leone e la volpe di Machiavelli che si rincorrono tra i lungoteveri, le varianti al piano regolatore e le osterie residuali dietro Montecitorio. La mamma del tangentomane che stira con il ferro le banconote perché sembrino più belle. Gli spioni, i figli naturali dei costruttori legati al Vaticano ("il Mattone di Dio"), le liturgie del comando e delle trombature in evidenza già nei funerali, i buffet miserabili, i mangiatori a sbafo, le fughe dal ristorante per non pagare il conto, la villa, la barca, l'amante, le risate, le malattie vere e quelle immaginarie. E parte il lungo, spudorato e perciò onesto racconto in prima persona di Claudio Bucci, giovane e ambizioso provinciale che senza eccessiva passione, per riscattare la sua condizione piccolo borghese da Fiano Romano punta al potere, perciò s'iscrive alla Dc e fra mille angosce, soddisfazioni, alleanze, abbandoni, mazzette, postulanti e tranquillanti, diventa consigliere regionale, poi onorevole, poi sottosegretario, poi ministro e infine nulla. E quando si guarda indietro, ferito negli affetti, nemmeno sa se ce l'ha fatta o no, dipende. Nelle avventurose fatiche anche famigliari e coniugali fanno capolino Emilio Colombo che tiepidamente lo arruola, e i brigatisti rossi che gli sparano alle gambe spalancandogli la carriera, e Licio Gelli che lo vuole nella sua loggia, e Donat-Cattin che pure ha i suoi guai, e quindi Fini nelle cui braccia si slancia come ultima risorsa, e che lo premia anche. Ma è troppo tardi, tutto è davvero finito e un giorno, abbagliato dalle luminarie di un comizio berlusconiano, Bucci lo riconosce con amaro disincanto: «Noi che eravamo stati così brutti, unti, grassi, con le nostre giacche a quadri e la camicia stropicciata, noi eravamo già incredibilmente lontani». Su questa umanità giganteggia la figura di De Sanctis, cioè di Andreotti: «Della politica, come del mondo — lo descrive l'autrice — aveva una concezione semplice ed elitaria al tempo stesso, il suo sistema ne era la diretta espressione. Alla base c'è il consenso e se la società è essenzialmente merda, per ripulire le fogne bisogna sporcarsi. Lui se ne guardava bene, ovviamente. Di conseguenza gli alleati migliori erano i peggiori ». Tale precisione di giudizio, così come l'eccezionale resa delle atmosfere non viene dal nulla, e a questo punto è doveroso chiarire che Alessandra Fiori, che pure ha solo 35 anni, è figlia di Publio Fiori, e al di là di ogni fantastica e ragionevole trasfigurazione romanzesca è evidente che il personaggio del protagonista si ispira e si rispecchia chiaramente nella sua storia, a riprova che vita e letteratura a volte sono fatte per intendersi. E l'ovvia tentazione sarebbe di concentrarsi su questo inesorabile vincolo di parentela, sul gelido chirurgico distacco e insieme sulla rovente immedesimazione che hanno portato una giovane donna a scrivere di suo padre. Ma Il cielo è dei potenti non è opera che si possa limitare alle faccende della famiglia Fiori, pure foriera di ulteriori sorprese, e non solo per l'indubbia sua originalità, ma soprattutto perché è un libro autentico, un vero romanzo, solo una storia vissuta con occhi e curiosità di bambina poteva restituire appieno ciò che nessuna memoria di protagonista o saggio di esperto "democristologo" avrebbe mai reso. I sentimenti, i luoghi, le debolezze, i valori, le ferite, le bugie, "gli odori e più spesso le puzze", insomma l'umanità che accompagna la parabola anche storica di un mondo, di una politica e di un potere che tanto profondamente hanno segnato il nostro passato prossimo. Dalle caciotte con cui veniva ricompensato il papà avvocato del protagonista agli appalti milionari e spartiti dallo smanioso deputato entro classiche valigette nelle foresterie dei palazzinari; dai seminterrati che ospitavano improbabili centri studi alle viscere del Palasport dell'Eur dove in arcano parallelo al congresso si svolgeva la vera, invisibile, decisiva e anche spassosa partita fra le correnti. In questo senso, seppure con il perenne timore di esagerare, si azzarderà qui che il libro di Alessandra Fiori rappresenta la continuazione, con altri mezzi e linguaggio ormai in qualche misura necessariamente degradato, del romanzo parlamentare, illustre e multiforme genere letterario coltivato da De Roberto, Guerrazzi, Castelnuovo, Barrili, senza i quali assai meno si saprebbe della vita politica di fine ottocento. In particolare Il cielo è dei potenti ricorda parecchio, per slancio introspettivo e intrecci sentimentali, La conquista di Roma di Matilde Serao. Non per caso, viene da pensare, anche in quel caso fu una donna a scriverlo — e a rileggerlo fa impressione per quanto anch'esso è crudo, cinico e vitale come il potere che rende felici e insieme distrugge non solo chi l'agguanta, ma anche soprattutto chi all'improvvido e sciagurato possessore cerca disperatamente di volere bene.