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L’EPITAFFIO – PILL N.9

Autore: Elisa Da Rin Puppel
Testata: Bello2Buono.com
Data: 22 gennaio 2013

Nell’intro del nono capitolo di Sinistri leggiamo:

VI sec. a.C.

Credi, uomo, che inevitabile cada la morte sul tuo capo e che le Parche siano sottomesse al Fato, padrone della vita, tessendo in un unico filo gli intrecci dell’esistenza. Ma ignori, debole creatura, che non per tutta retta via si dipana il groviglio dei tuoi giorni, bensì una triplice possibilità si avvicina all’ultimo varco per porre fine al tuo sguardo. (Sinistri, Racconto 9 – intro-)

Queste parole fanno pensare ad una sorta di “giudice”, una sentenza giudiziaria emanata dal nostro Destino che pesa su di noi, su ciò che siamo e su ciò che saremo … anche dopo la morte.

Tre sono le vie:

La gloria e l’immortalità nel ricordo dei vivi

La dignitosità ma con presto oblio

E la derisione, destinata agli storpi, nani e balbuzienti.

Dicono che vi sia solo un modo per esser ricordati, e non morire indegni: lasciare qualche cosa di sé.

I pittori pensano ai loro dipinti

Gli scrittori ai libri

I musicisti agli spartiti

E così via…fino ai più umili: i padri senza talento, i quali lasciano i propri figli, con la speranza che essi relizzino quello che loro non han potuto o saputo realizzare.

Con Tersite abbiamo già parlato di “ballarci sopra”, sulla vita, ma quando vi è di mezzo un qualche cosa da lasciare dietro di noi, per segnare la Storia, come ci si può comportare?

Ecco dunque la domanda di questa pill n. 9, la penultima per Sinistri, prima di tagliare questo filo rosso:

Caro Tersite, se tu dovessi scrivere un tuo epitaffio da lasciare sulla tua tomba o in una pseudo Antologia di Spoon River, cosa scriveresti?

Prima ci sarebbero da affrontare alcuni problemi di ordine pratico!

Il primo:

Come e dove si seppellisce uno scrittore collettivo?

Il secondo:

Se non c’è pietra tombale – dato che il defunto non intende farsi seppellire, ma cremare – dove si scrive l’epitaffio?

Terzo:

Che si fa se il soggetto non ha abbastanza stima di sé da ritenersi degno d’un epitaffio né abbastanza vanagloria per scriverselo?

Ma stiamo al tuo gioco, Elisa, e facciamo finta di avvicinarci all’incontro con la Grande Consolatrice senza tener conto di questi problemucci di ordine pratico. Scriviamolo, allora, questo epitaffio. Come se dovessimo andarcene domani. Reciterebbe, allora, più o meno così:

 

Immagina due giovin ringraziare

per aver avuto la fortuna d’un legame

con posti dove leggere e imparare,

lontani i morsi acri della fame.

 

Iniziarono a scrivere sommessi,

e lo facevan sol per professione,

oppure tutt’al più per loro stessi,

privi com’eran del cuore di leone.

 

I due necessitavan d’incontrarsi

per mettersi di nuovo in discussione,

trovare il coraggio di provarci,

la forza di scriver per passione.

 

Immagina che, insieme, la realtà

volessero colpire coi martelli:

disgusto da ingiustizie e avidità,

stima per gli onesti ed i ribelli.

 

E musa sempre fu la ribellione,

e il disgusto loro solido boccale:

scelsero Tersite come nome,

e Rossi per renderlo mortale.

 

L’antieroe due volte si romanza:

cuore puro e mani nella terra,

il folle cui affidaron la speranza

sapeva già di perder la sua guerra.

 

Però il lavoro non era già finito,

l’antieroe chiedeva un atto terzo,

ma il destino non fu mai loro amico,

e riservò inattesa morte come scherzo.

 

Immagina, carissimo lettore,

adesso che Tersite non c’è più,

di raccoglierne l’arduo testimone,

e, antieroe, di andare avanti tu.