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Una geografia della morte

Autore: Laura Ingallinella
Testata: Critica Letteraria
Data: 13 febbraio 2013

Per uno scrittore, si sa, non è il primo romanzo la vera prova del fuoco, ma il secondo: e dopo un esordio visionario come Settanta acrilico trenta lana, Premio Campiello Opera Prima 2011 ancora presente nelle classifiche di tutto il mondo, le aspettative intorno alla nuova opera di Viola Di Grado sono molto alte. Cuore cavo, il suo ultimo romanzo, esce oggi per e/o: una lettura, ve lo dico subito, che conferma queste aspettative e rivela una scrittura perfettamente giunta a maturità.

Cuore cavo inizia con una morte che è una vera apocalissi geologica. Non potrebbe essere altrimenti; dal corpo di Dorotea Giglio, che si raffredda nella vasca in cui ha reciso le sue vene, parte una catastrofe planetaria non molto diversa da quella che, a suo modo, immaginava la Marta di Diceria dell'untore:

Io sola sono vera e sarò vera finché vivo. Voi, gli altri, siete appena barlumi e finzioni che sento respirare e parlare al mio fianco. E la storia non riguarda che voi, io non so cosa vuol dire. Capiscimi: nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte. E tutte le carneficine e derive di continenti e scoppi di stelle sono soltanto canzonetta e commedia, al confronto di questo minuscolo e irripetibile cataclisma, la morte di Marta.

Ciò che nella Diceria è una fantasia affabulatoria, in Cuore cavo accade davvero:

Nel 2011 è finito il mondo: mi sono uccisa.
Il 23 luglio, alle 15.29, la mia morte è partita da Catania (...) giù per le scale polverose del mio palazzo, giù come vene dell'asfalto unto e bollente, insidiosa, la mia morte si è propagata da via Crispi 21 alle strade circostanti, al Duomo con i suoi piccioni e i suoi turisti in shorts, al fiume Amenano che odora di carogna e scompare sottoterra. Dal mio sistema nervoso centrale alle strade centrali, da freddo a caldo, un guasto perfetto senza ritorno.

Se nel mito classico è l'eroe o la ninfa fuggiasca a subire la metamorfosi e a trasformarsi in albero, nuvola o spuma d'onda, in Cuore cavo accade il contrario, è il mondo intero a trasformarsi nel corpo di Dorotea Giglio. L'ultimo romanzo di Viola Di Grado è una stupefacente mappa geografica della morte: una mappa slabbrata (com'erano slabbrati gli abiti di Camelia) nel tempo e nello spazio; una mappa che è un corpo allo specchio, che contempla le proprie lacerazioni (come, ancora, gli abiti di Camelia: ma qui è tutto diverso, il cataclisma è davvero universale, perché "minuscolo e irripetibile"). L'esplorazione di questa mappa potrebbe durare all'infinito, perché di fronte al proprio corpo in disfacimento, sospesi in un limbo in cui il ricordo è un privilegio, il desiderio è una condanna e la comunicabilità è sempre destinata a fallire, la parola è l'unico viatico che possa garantire un conforto, un movimento.

La morte di Dorotea ha una morfologia composta di pochi elementi: acqua, minerali, famiglia e desiderio. La famiglia Giglio è un tempio vestale consacrato alla letteratura, e a Dorotea si accompagnano tre sorelle, sacerdotesse del dolore, che portano nomi legati al mondo acquatico: Greta, la madre petrosa-depressa; Clara, la cristallina portatrice di vita; e Lidia, infine, annegata nel fiume con le tasche piene di sassi come Virginia Woolf. Questo tempio di donne è popolato anche di ombre illustri: Violet Trefusis, Sinéad O'Connor, Whitney Houston, Frida Kahlo, Amy Winehouse (che appare in un gustoso cameo).

Le divinità tutelari di Cuore cavo sono tuttavia proprio due grandi innominate, che innervano la struttura profonda del romanzo senza apparire mai esplicitamente: Virginia Woolf, lo abbiamo detto, ma anche Sylvia Plath. Qualche recensore ha già storto il naso di fronte a certe "digressioni pulp di troppo sul disfacimento dei corpi", ma non si sottolineerà mai abbastanza quanto non si tratti di digressioni, tanto meno di digressioni pulp: l'attenzione ossessiva alla corruzione del corpo è un esercizio liturgico di natura tutta letteraria, un tema già attivo altrove (varrà qualcosa notare che, per esempio, un autore come Daniel Pennac abbia dedicato il suo ultimo romanzo alla Storia di un corpo o, meglio, della sua decandenza) e, soprattutto, erede della poesia della Plath, in cui la nevrotica rappresentazione della decomposizione-in-vita è assai ricorrente:

Via il drappo,
O mio nemico!
Faccio forse paura?
Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.
Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me
E io sarò una donna che sorride.

La scrittura di Cuore cavo, a differenza di una sfida come quella della Plath, attraverso la propria sconvolgente crudezza cerca di esprimere altro, una pietà di sé, un'amorosa necrosezione. Quest'ultimo romanzo di Viola Di Grado, a tratti dolce e terribile, si ritaglia un posto in quel claustrale giardino della letteratura che potremmo chiamare, con Eugenides, delle vergini suicide. Dorotea Giglio è una suicida-per-ottimismo che non smette di provare desiderio e non smette di cercare, per amore, i suoi vivi o altri fantasmi, irraggiungibili anche per chi ha oltrepassato la linea della morte.