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Cosa accade a dire l'orrore

Autore: Filippo La Porta
Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 17 marzo 2013

Forse la critica dovrebbe liberarsi dalla categoria - fuorviante - di «realismo». Walter Siti tenta di riformularla in Il realismo è l'impossibile (Nottetempo), ma se definisce il realismo come l'«anti-abitudine» (rappresentare il mondo in modo non convenzionale), allora quella categoria coincide con la letteratura stessa, e il realismo, prima di essere l'impossibile, è una parola vuota. Proviamo a fare un test. Due romanzi usciti ora, pieni di sangue, viscere e materia purulenta - dunque intrisi di realtà-, e cioè Per sempre carnivori di Cosimo Argentina e Cuore cavo di Viola Di Grado, somigliano ad altrettanti sogni della mente: narrazioni visionarie, solipsistiche, tenute in piedi solo dalla tensione e dall'energia della lingua. Apriamo il libro di Argentina: «A me di Rita piacevano le lentiggini diffuse sotto agli occhi e quando diceva "Goffredo, andiamo", le lentiggini le si scomponevano in faccia e alcune le finivano sulle labbra .. ». Nella sua pagina tutto si scompone e poi ricompone, mentre d racconta di tre giovani insegnanti tarantini, dei luoghi che frequentano e delle loro picaresche avventure erotico-scolastiche. Ama metafore grevi e iperboli: «Gli anni gli galoppavano sui capelli ingialliti al passo di una milonga straziante ... », «il preside aveva il fegato inchiodato al diaframma .... », «'Ste fesserie venivano dalla sdentatura del signor Antonio ... ». C'è una pagina che sembra un calco dalla cinquecentesca Vita di Lazarillo de Tormes, capolavoro ironico-realistico. L'io narrante descrive l'avvocato cieco per il quale lavora da ragazzo di bottega: «Aveva un occhio azzurro e l'altro spappolato dagli zuccheri... e quando gli saltava la mosca al naso mi chiamava "ebbbreodimmerda". Io non so nemmeno se sono ebreo ... lui però vedeva tutto distorto da quell'occhio azzurro ». I tre insegnanti precari trascinano le loro precarie giornate, <<immersi nelle luci gialle dei lampioni che fanno tanto medioevo sudista>), ubriacandosi, discorrendo di donne, calcio ed esistenza. Quando smettono di parlare ti resta nell'orecchio la loro chiacchiera ossessiva, gergale, semi-afasica, che di tutto si nutre febbrilmente. La realtà è orrore e degrado. n romanzo si conclude con una strage tarantiniana e teste mozzate. Però può salvarci l'immaginazione di un altrove: « ... urlo la mia felicità per l'esistenza di mondi paralleli che mi permettono di fuggire dal mio, da quello che tecnicamente definiamo reale. Reale? Ditemelo voi cos'è reale>>. Una risposta gliela dà, involontariamente, Cuore cavo, singolarissimo diario post mortem di Dorotea, una ragazza suicida a venticinque anni. Viola Di Grado - che ha venticinque anni ed esordì con il notevole Settanta acrilico trenta Lana - è catanese, Argentina di Taranto: entrambi condividono una sensibilità barocca incline al cimiteriale: qui perfino il mare Jonio fermo e trasparente è «Come una bara di cristallo». Diario preciso, a tratti meticoloso della decomposizione del corpo, divenni, mosche e farfalle nere che se ne impadroniscono. L'immaginario dell'autrice è impastato di biologia ed entomologia, tra Ammaniti e i ragni e blatte di Landolfi. Lo splatter diventa "naturale", senza compiacimento. L'incipit evoca i modi di un poema in prosa. La morte di Dorotea, avvenuta alle ore 15.29 del 23 luglio 2011, parte da via Crispi, a Catania, e poi si propaga scendendo giù per le scale polverose, le strade, la pietra lavi ca, le spiagge, <<geometrica nel getto delle docce, brutale in fondo agli scarichi», fino a coincidere con una morte cosmica .. Si toglie la vita perché crescere è una stortura, la materia tende all'autodistruzione: «Invece crescevo ... cresceva il diametro della vita e la punta del naso ... cresceva la mia voce ... crescevano le dita, cresceva la città. .. » (qui e altrove una propensione all'anafora). Dorotea, finalmente staccata dalla prigione corporale, veleggia libera attraverso l'aria senza neanche più i confini angusti dell'io: «Potevo essere dappertutto». Si disperde nell'universo eppure mantiene una coscienza individuale e una memoria È priva di desideri ma prova sentimenti e rimorsi, tanto che torna-invisibile - a visitare la casa della mamma, del fidanzato, la propria lapide (solo in ciò ricorda gli Amabili resti, pubblicato dallo stesso editore). Scrive lettere a sue compagne morte per sapere come trascorrono la vita eterna (sembra una ricerca su Facebook!) e si innamora la prima volta da morta di Alberto, commesso in una cartoleria dove ha deciso di lavorare, pur come fantasma n libro mostra soprattutto come la vita e la morte, il visibile e l'invisibile, i viventi e i defunti comunicano misteriosamente tra di loro (Alberto si accorge in modo subliminale di lei). Nel ciclo sempre-uguale dell'Essere non c'è mai vera conclusione. Dorotea tenta perfino di fondersi - lei che è fatta di aria -con la madre e la zia in un abbraccio commosso, quasi dantesco, tra un'anima immateriale e dei corpi vivi e palpitanti. Senza voleri o la Di Grado porta all'estremo l'autofiction - sottogenere editoriale ormai stucchevole- per dissolverla in una parodia ilaro-macabra, in un romanzo straniante e impudico cui riesce perfino a dare un happy end, poiché sulla terra sopra la tomba è arrivata la primavera. È come se ci dicesse, beffardamente: l'avete voluto il realismo(o il neorealismo, o il neo-neorealismo ... )? Bene, cosa c'è di più "reale" di un corpo che si scioglie nei suoi liquami e che diventa infine un «gioiello di ossa preziose>)?