Quel che resta dopo la vita
Autore: Luciana Sica
Testata: La Repubblica
Data: 28 marzo 2013
Dorotea Giglio sembra "normale": vive con la madre, studia biologia, suona il violino, lavora in una cartoleria. E invece prende antidepressivi, lacerata dall'assenza di un padre mai conosciuto. Si uccide a venticinque anni, «il polso destro poggiato sul bordo della vasca, l'altro immerso in un triste mojito di bagnoschiuma alla menta e sangue... «. È una ragazza suicida l'io narrante del secondo romanzo di Viola Di Grado, Cuore cavo (e/o), un libro che conferma il talento, la forza inventiva, il linguaggio poetico e spiazzante di questa giovane scrittrice catanese e così poco isolana, apolide per formazione, da studiosa di lingue e culture orientali. Piccole autrici crescono. In molti casi diventano irrilevanti, si dissolvono, spariscono. Magari possono essere "mediatiche", ma sul piano letterario non contano. Diverso sembra il destino di Viola Di Grado che un paio d'anni fa ha esordito con un libro sorprendente come Settanta acrilico trenta lana, premiato con il Campiello opera prima, tradotto in otto Paesi. Nel segno di una disperata e reciproca afasia, era la storia di un conflitto tra madre e figlia restituita con una convincente prova di scrittura. Non sarà il caso di scomodare Calvino per dire quanto sia pericoloso un esordio di successo. Se poi l'autrice ha ventitré anni, può anche perdere la testa, rincorrere la fama e la visibilità a tutti costi, e quindi crollare al secondo giro con uno di quei libri costruiti per piacere: furbi, gradevoli, inutili. Ma a dispetto dell'aria fragile e dark — lunghi capelli biondi e labbra tinte di nero — Viola Di Grado sembra decisa a misurarsi con la letteratura. E quindi cosa fa? Non sceglie un plot facile, ma inventa la storia vivissima di una morta. Tutto quel che viene dopo un suicidio. Non l'impronunciabile nulla, ma piuttosto un passaggio ricchissimo di emozioni e di sentimenti, di pensieri e di ricordi, la forza degli affetti e dei legami, quel che resta dell'attaccamento alla vita. Una storia per niente macabra, anzi piena di luce. Dagli Amabili resti di Alice Sebold alla Metafisica dei tubi di Amelie Nothomb, le suggestioni letterarie (e non solo) legate a un libro del genere sono senz'altro più di una. Può anche venire in mente La sposa cadavere— l'universo romantico e gotico di Tim Burton — o la stessa Donna di dolori, la lunga elegia in versi di Patrizia Valduga. Come quel poemetto in forma di monologo evoca le riflessioni di una donna in fase di decomposizione, anche qui — in Cuore cavo — si indulge puntigliosamente sul disfacimento del corpo, tra liquami organici e assalti di insetti assai metodici. Eppure non prevale la sensazione di uno sconfinamento nel pulp, di una digressione nello splatter, perché è sempre una scrittura densamente letteraria a sostenere l'ossessiva concentrazione sul corpo, su ogni dettaglio della sua progressiva corruzione. Forse la "scientificità" delle descrizioni toglie pathos alla storia, la rende fredda e poco alla volta anche un po' noiosa, ma corrisponde al disamore che ha segnato la vita di Dorotea, a una specie di rimpianto e soprattutto a una profonda pietà di sé: «Dentro la bara, soffro come se la solitudine fosse ancora rimediabile. Come se mio padre potesse tornare da un momento all'altro a rimboccarmi la pelle rimasta... ». Non "intrattiene" il nuovo romanzo di Viola Di Grado, questo no, eppure è un distillato di delirante tenerezza tutt'altro che privo di speranza. Sfidando un tabù occidentale e accogliendo lo sguardo diverso dell'Oriente, la morte non è presentata come un evento puntuale e definitivo ma diventa un processo, una lenta trasformazione. Inevitabilmente è anche un libro che interroga sull'illusione dell'identità e sul destino comunque misterioso di chi è assente, senza incoraggiare la certezza assoluta che un muro spessissimo divida la vita dalla sua fine.