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Il ritmo postmoderno di una vita precaria

Autore: Giuseppe Allegri
Testata: Il Manifesto
Data: 21 settembre 2007

«Il mio capo si chiama Dolto»: così inizia l'odissea lavorativa ed esistenziale di Dan Mamout, l'inquieto idraulico protagonista di Blues di banlieue, il noir rabbioso ed ironico dello scrittore Nan Aurousseau (edizioni e/o, pp. 131, euro 14), tradotto con grande verve da Yasmina Melaouah.

Dan è sopravvissuto a un'adolescenza a mano armata e a sei anni di carcere. La commissione per la semilibertà lo ha consegnato a un «centro di avviamento professionale», che lo riconduce dove era cresciuto, cioè da dove avrebbe voluto scappare: la soffocante periferia urbana della banlieue.

«Le ganasce della trappola si richiudevano ancora una volta», annota l'autore. A partire da questo indesiderato ritorno Nan/Dan riesce a imbastire una narrazione al vetriolo, che ruota intorno al suo lavoro di idraulico nell'impresa dell'odioso Dolto e del suo socio Dujardin, che troppo tardi si accorge delle ripetute truffe tramate dal «capo». Le pagine scorrono con il sottofondo della ricerca della cassaforte sottratta da Dolto alla «sua ditta». Una storia avvincente, a tratti esilarante, narrata con una miscela di chiacchiera affabulatrice, esposizioni tecnico-gergali e la virulenza del linguaggio di strada.

Ma soprattutto nelle maglie di questa trama ci sono pagine indimenticabili, in bilico tra alienazione da lavoro, manifestazioni psicosomatiche di disagio, ribellione solipsistica e disincantata autoironia. Esilarante il racconto del «cantiere maledetto» e dei lavoratori morti e sepolti nella Grande Bibliothèque voluta da quella «banda di romantici che gravitava intorno a Mitterand». E poi Dan che «aggiusta due radiatori di ghisa» dal grande Jean-Patrick Manchette, che «beveva whisky nel suo soggiorno» e, dopo aver letto il libro che Dan sta scrivendo, centellina consigli e soprattutto svela «come mai gli uomini, e a volte le donne, scuotessero così tanto la testa nei suoi romanzi». Dan ce ne ha per tutti: si scaglia contro «quell'incubo di lavoro dipendente»; contro le «ideucce preconfezionate sul riscatto attraverso il lavoro». La sua «strategia» per sopravvivere è: «Dolto mi deve licenziare, così posso prendere il sussidio di disoccupazione»; e poi «per due anni avrei potuto dedicarmi al mio libro». In caso di successo, la sua compagna «avrebbe smesso di lavorare alla Renault» e insieme vivere in un albergo in riva al mare.

Dan è l'alter ego dell'autore, a cominciare dalle «coincidenze» biografiche: un'adolescenza faticosa, duro reinserimento sociale, precarietà e disoccupazione alle spalle, la scrtittura come provvisoria salvezza.

Certo Dan diviene l'ossessionato, solitario anti-eroe spavaldo, e poi sempre più cupo e sofferente, di questa sferzante epica noir dei nostri tempi precari seppur «postmoderni». Ma per fortuna, nella imprevedibile vita reale, Nan ha conosciuto Manchette ed è riuscito ad ottenere il sussidio di disoccupazione per scrivere questo formidabile libello di «critica sociale» (ne ha già pubblicato un altro: Du même auteur, Stock).

Che voglia indicare un sentiero, magari interrotto, da cominciare a percorrere di nuovo, onde evitare una vita piena solo di lavoro deprimente, solitudine metropolitana e rabbia nichilista?