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Uccidere la madre. Una figlia criminale per fame di felicità

Autore: Lisa Ginzburg
Testata: L'Unità
Data: 18 ottobre 2007

Se è vero che la potenza di un romanzo dipende in linea diretta da come una narrazione fronteggia e poi scioglie o lascia intatto, ma come che sia evidenzia, un nodo, “il” nodo, allora non c’è dubbio che con il suo terzo libro, La Quasi Luna (e/o, pp. 315), Alice Sebold abbia pienamente fatto centro. È un grumo psichico prima che letterario scelto con oculato coraggio, quello che fa da dispositivo/demiurgo della vicenda. Un grumo antico quanto antica è la chiaroscurità del legame che lo compone, quello tra madre e figlia. Osmosi della simbiosi, apogeo della complessità di un’amorosa rivalità femminile, stratagemma concepito da una donna accecata di dedizione ambivalente: la figlia sopprime la madre. Poi, guidata dalle illuminazioni intermittenti di una sfera stroboscopica che di volta in volta fa luce su squarci di passato remoto, illusioni recenti, piccole felicità e grandi sofferenze lungo l’arco della sua vita di figlia (e madre, ma sembrerebbe solo per declinazione subordinata), eccola ripercorrere le cesure che hanno frantumato la sua genealogia. C’è molto: un suicidio, un matrimonio simbiotico capace di generare figlie dai destini divergenti, psicoterapie vissute troppo intellettualmente e dagli esiti dubbi. E su tutto la cortina di poco ossigeno – in una parola: soffocante – dell’abnegazione malgré soi a una madre mentalmente instabile, la cui struggente quanto micidiale fragilità ha come cardini i puntelli dell’esser madre stesso, quella originaria cura di sé che può, essa sola, tradursi in capacità di amore e protezione. Qui invece un nipotino viene fatto cadere in terra, e un bambino investito per la strada, orrendamente lasciato senza soccorsi. Inerme ma più che violenta, dunque, la madre soppressa. Criminale ma affamata di vita, la figlia matricida. Il sesso, in questo panorama tipologico desolato quanto lo spaccato di provincia americana che ne è lo scenario, è famelica rincorsa della vita, simulazione della felicità. Gli incontri umani in genere, strappi di vesti già lacere. Ma quel che più colpisce e, dal punto di vista della scrittura impressiona, è la mente che Alice Sebold ha concepito per la sua protagonista. Un cervello inesauribile, la cui febbrile attività è primo attore della storia. Mente lucida quanto ferita. Di modo che i ricordi sono lampi tra l’esatto e lo straziante, e le speranze, facendosi strada tra macerie di morte, soprusi, desideri abortiti, paiono piccole strade indicate dai bagliori fiochi di lucciole. In una strategia maniacale, quella stessa mente elenca i fatti nei loro dettagli quasi macabri, quasi pulp, ma per nient’altra ragione che rendere l’orrore di quanto accade per nostro esatto volere eppure nostro malgrado. Poi subito li trasforma in ricordi precisi e immoti, come fossero stati conservati in frigo.
Se in quell’esordio prodigioso che è stato The Lovely Bones (Amabili resti, e/o 2002) la Sebold aveva condensato tutta l’esplosività del romanzo nel concepire una sua geografia trascendentale (una bambina morta di morte violenta continua dall’alto dei cieli a seguire le sorti della sua famiglia), qui la forza è tutta contraria: è centripeta, implosa. Lo sguardo che lavora indefesso, altrettanto implacabilmente si contempla. L’azione centrale della mente che lo dirige è eliminare, alla fine, l’artefice di tutte le sue ossessioni (la ferale adorata mamma), e farlo con colpevole, devotissimo amore. Ma è uno sguardo cui manca la luce dell’autonomia, che non sa osservarsi senza mediazioni. Dal suo piano sfalsato, la bambina protagonista di Lovely Bones era perfettamente cosciente di sé, e la sua peculiarissima visuale prospettica le regalava una sonorità di voce narrante assolutamente inconfondibile. In questo The Almost Moon invece, paradossalmente, il soggetto al tempo stesso spettatore e attore deve approssimarsi a se stesso utilizzando filtri. Lo sguardo altrui per primo. Angelica e devastata, la matricida per arrotondare il quasi lunario posa nuda come modella in Istituto d’arte. La visione alterizzata del suo corpo la aiuta a farlo vivere e palpitare, di fame di vita così come del desiderio di una morte che lo riconsegni alla vita. Col risultato di un pentagramma dove le note solo qua e là suonano un tantino stonate. Per quei miracoli della disarmonia che ricompongono l’esistenza, aprono le ferite del cuore lasciandole finalmente sanguinare. La luna trova la strada per farsi piena. La letteratura, quella della espiazione dalla più insinuante delle colpe: immaginare l’estremo, descriverlo, e poi impigliarsi nella trama della sua immane irreversibilità.