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We are family di Fabio Bartolomei

Autore: Valentina Malcotti
Testata: Sul Romanzo
Data: 4 giugno 2013

Se questo libro fosse un hashtag di Twitter sarebbe #felicità, se fosse un giorno della settimana sarebbe una di quelle domeniche in famiglia in cui il tempo è sospeso, tutti sono di invincibile buon umore e il domani non esiste, o almeno non fa paura. Se fosse un dolce sarebbe un ciambellone fatto in casa, come quello che prepara, cercando i migliori prezzi nelle periferie di Roma, la mamma del protagonista: un piatto genuino e nutriente a cui tornare sempre con infinita fiducia. Quel gusto rassicurante che non stufa mai, come è impossibile saziarsi di Fabio Bartolomei.

Se We are family (Edizioni e/o, 2013) fosse una canzone, beh, è troppo facile: quella delle Sister Sledge da cui questo terzo romanzo del pubblicitario e sceneggiatore romano prende il titolo e che diventa un inno alla crescita felice, nonostante tutto.

È il caso di proclamarlo: habemus supereroe moderno! Dopo i tre gestori “per caso” dell’agriturismo Casal de’ Pazzi che si ritrovano a combattere la camorra in Giulia 1300 e altri miracoli e i quattro vecchietti di La banda degli invisibili i quali, dal centro anziani, tramano il sequestro di Berlusconi, Bartolomei ha pensato a un’altra figura dall’inaspettata portata storica: Almerico Santamaria, detto Al, un genietto, fratello e figlio affettuoso, il quale, capitolo per capitolo, attraversa gli anni Settanta-Ottanta con un’epica determinazione ad amare la vita. Sibillina la citazione di Keith Haring in apertura: «I bambini sanno qualcosa che la maggior parte della gente ha dimenticato».

Bartolomei non cade nella solita trappola del maggiorenne che cerca di raccontare il mondo attraverso gli occhi di un bambino. Non ci costringe a vivere la forzatura di un’amnesia strutturale o a frustrarci per l’incapacità di tornare ai pensieri di quell’età. Il suo personaggio è un po’ Derrida, un po’ Epicuro. Nei giorni di Al non ci sono cose ovvie o banali e tutto ha una spiegazione che non c’entra con le leggi dettate dalla forma e da generazioni ad essa assuefatte. Al ne è ben cosciente già a quattordici anni: «È l’estetica che fa la morale».

Grandi imprese aspettano Al: salvare il mondo e far vivere felici i bambini. Ma prima della missione planetaria c’è da capire dove i suoi genitori indigenti possano trovare i soldi per comprare una casa, come mai quella sua sorella maggiore «femmina» è così diversa da lui, per quale ragione la burocrazia deve complicare le cose semplici e seminare ingiustizie e perché gli adulti a volte perdono il sentimento, o si addormentano in esso, e non sono più capaci di vivere «ora, adesso, subito».

A queste domande si dà delle risposte che, da sole, valgono la lettura del libro: «Basta andare in America per diventare ricchi o una volta lì bisogna fare qualcosa?», «Non è possibile rendere felice il genere umano tutto insieme» oppure «La disoccupazione va considerata truffa di stato». E sulla scia di queste risposte elabora proposte concrete come la neocolonizzazione responsabile, l’estensione del diritto di eleggere il presidente degli USA a tutti i Paesi del mondo, vista la sua influenza sugli equilibri globali, e molte altre chicche intelligenti. Alle orecchie strutturaliste di Al le parole sono tutte interpretabili e polisemiche. Così un «ragazzo di sinistra» sentito al radiogiornale diventa «un mancino come me». L’elaborazione delle spiegazioni impacciate che riceve a proposito della morte della nonna danno vita alle seguenti immagini della defunta: «lo scheletro di un gabbiano» che è volato in cielo e un fiore appassito («La domanda è: perché non hanno dato acqua alla nonna?»).

Con lo stile visivo e fresco di Bartolomei, la storia si snoda a un ritmo strepitoso, i colpi di scena sempre in agguato. Se una vecchia Alfa Giulia 1300 verde scuro sepolta sotto un prato con l’autoradio difettosa vi aveva entusiasmato, allora le avventure del Principato Santamaria vi daranno i crampi dal ridere.

In un’intervista Bartolomei ha dichiarato di aver preso spunto da suo nipote e dai figli dei suoi amici per la figura di Al. Nel 1971, quando inizia il romanzo, è un bambino adulto di quattro anni; nell’epilogo, ai giorni nostri, è un adulto bambino. Ma non stiamo parlando del solito Peter Pan edonista e ingenuo, non di un illuso immaturo che non capisce le logiche del sistema. Anzi. Riassume il suo Paese nella teoria dell’Italian Dream, ovvero: «L’Italia è il paese delle opportunità di classe. Ogni cittadino già ricco ha la possibilità di diventarlo ancora di più».

Neppure “idealista” è un termine corretto per definire Al. Non rende giustizia. Gli idealisti spesso preferiscono non guardare, si trincerano dietro a utopie per non vedere, invece Al guarda, eccome, ed è quello che vede a fare la differenza. Direi piuttosto “realista”, ma siccome da qui il passo a “pessimista” è quasi automatico, specifico: un realista ottimista.

Stare al mondo è una cosa seria per lui. «Le favole le scrivono gli adulti», osserva. E sono, per natura, fantastiche e incantate. Si dice: «Se un vecchio papero si tuffa su una montagna di monete si spezza il collo, se sei allergico alla kryptonite muori per shock anafilattico». We are family è una favola per adulti, saggia e disincantata ma, al tempo stesso, con una carica di esplosiva speranza e disarmante tenerezza. Ancora una volta la penna di Bartolomei è stata preservata dal cinismo convenzionale e dall’insipidezza.