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István Örkény - Novelle da un minuto

Autore: Mirko Zilahy De Gyurgyokai
Testata: www.yoricklibri.it
Data: 27 ottobre 2007

Se, nella folta legione della piccolo-media industria libraria indipendente, c’è un editore “di progetto” che ha fatto della ricerca letteraria a tutto tondo la vera linea culturale della propria impresa, questi è Sandro Ferri. Edizioni e/o, da quasi trent’anni (nasce alla fine dei ’70 dalla collaborazione con Sandra Ozzola), è esempio di programmazione e qualità d’eccellenza: un piano editoriale che ha conquistato al proprio catalogo letterature d’ogni dove – tedesca, praghese, polacca, russa, slava; e ancora americana, cinese e africana – e d’ogni sorta – dal giallo puro al noir mediterraneo di Carlotto (nel 2000 e/o promuove un convegno sul nuovo genere presso la Casa delle Letterature di Roma), dalla letteratura intimista della Ferrante e quella femminile della Levi e della Sebold, sino a quella caraibica di Pedro Gutierrez. Tale vocazione si conferma ulteriormente nell’apertura, nel 2005 a New York, della satellite Europa editions che si occupa di tradurre autori europei ed italiani negli States.
All’inizio tuttavia fu l’Est europeo, con le sue patrie discoste e remote da cui prendono il nome le collane, e tra le quali spicca quella praghese diretta da Milan Kundera. Fra le latitudini letterarie più appartate, esplorate dalla casa romana, v’è quella d’area magiara. Così, tra i vari Balázs, Esterházy, Szerb, Csáth, Kardos, e/o ha provveduto a riesumare dal dimenticatoio dell’universo culturale ungherese un autore stravagante e geniale: István Örkény (1912-1979). Scrittore che per i non appassionati e i non addetti ai lavori suona senz’altro sconosciuto e che, proprio a causa della perifericità di quella letteratura nella considerazione prospettica del nostro paese (Cfr. L’Ungheria e l’Europa, G.Cavaglià, Bulzoni, 1996, euro 25,82, pp. 444; Arcades Ambo. Relazioni letterarie italo-ungheresi, S.Laszlo, Rubbettino, 2000, euro 15,49, pp. 354), è stato quasi ignorato.
Novelle da un minuto (1988, poi nei tascabili 1991 e 1999) e Giochi di gatti (1990), fan parte della stessa cosmologia letteraria, benché con piccole variazioni: mentre questo si colloca nella varia costellazione dell’umorismo nero della tradizione novecentesca ungherese (Cfr. Storia della letteratura ungherese vo. II , AA.VV., Lindau, 2004, euro 32, pp. 345), risultando romanzo d’oscure fattezze, nel libro in questione, Örkény preme a fondo sul tasto del puro grottesco est-europeo compresso nella misura della storia in parabole.L’edizione tascabile si presenta corredata dalla validissima postfazione dello scomparso magiarista Giampiero Cavaglià che presenta, con legittimo differimento a fondo testo, la cornice storico-letteraria e una panoramica dell’estetica örkéniane.
Le 55 “novelle” sono introdotte da una “Istruzione per l’uso” nella quale Örkény fornisce giocosamente le coordinate d’una veloce lettura d’intrattenimento: “Mentre l’uovo cuoce, mentre aspettiamo che il numero chiamato si liberi (se è occupato), leggiamoci una novella da un minuto”.
Il senso più pieno della cifra stilistica e della misura poetica delle mininarrazioni è, ciò nondimeno, all’insegna del paradosso, del cinismo e del tragicomico, in una miscela che provoca esiti terribilmente spiazzanti o, come nel caso di “Paesaggio invernale con due cupole a cipolla”, agghiaccianti. Ivi, sullo sfondo post bellico della cittadina di Davidovka (oggi in Ucraina), una donna, condannata dal tribunale di guerra tedesco per un reato non meglio definito, viene frettolosamente giustiziata da un manipolo di militari improvvisati: “La donna aspettava là, sotto l’albero, immobile come se le gambe le si fossero gelate sulla terra. Non versò neppure una lacrima […] Stava là e guardava con gli occhi ardenti la bambina che era sgattaiolata sotto il camion e di là faceva capolino verso di lei. [..] Quando annodarono la corda al collo della giovane donna, lei da sotto il camion rise con voce fresca, come se stessero facendole il solletico”. Conclusa l’impiccagione, la bimba resta ad osservare rapita l’ipnotico movimento del pendolo umano poi, “come se avesse trovato divertente il gioco ma cominciasse a pensare che lo scherzo durava troppo a lungo, gridò all’albero: “Mamma!”.
Örkény, riporta Cavaglià, fu fermo sostenitore dell’idea che la letteratura non deve educare in alcun modo il lettore, semmai provocarlo, “stimolarlo a una percezione della realtà diversa da quella a cui è abituato”, e in questa visuale asimmetrica si spiega l’uso ostinato del paradosso sia nello scardinamento della realtà documentata sia di quella simbolica: “la realtà capovolta di Örkény non è nient’altro che la concreta realtà dell’Ungheria […] i cui abitanti vengono continuamente costretti dalla storia ad accettare l’inaccettabile” che si attesta non tanto come puro atteggiamento letterario, quanto come la prospettiva di un popolo.
Ciò nondimeno, l’umorismo assurdo e grottesco di queste novelle ha una sua effettiva presa sul lettore povero di riferimenti culturali, grazie all’identificazione con un più generico sentimento di umanità che emerge ad ogni pagina. Sentimento che scaturisce, in primis, dall’enorme frizione prodotta dall’accostamento dei freddi particolari della realtà concreta e della nebulosità dei personaggi in campo. Altre strategie in gioco sono la normalizzazione dell’elemento irrazionale o inusuale, il rovesciamento della percezione quotidiana della vita, la narrazione di eventi improbabili, anche se non impossibili. Di frequente sono surreali, come nel caso di un’inverosimile intervista con un’astronauta ungherese di ritorno dalla luna cui viene domandato della presenza di vita: “Ha fatto bene a chiedermelo, perché è una cosa che potrà interessare certamente anche altri. La superficie della luna è così bucherellata che io, sacrificando gran parte della mia acqua potabile, ho provato a stanare marmotte”; stranamente, sul satellite di quei torpidi roditori non v’è traccia ma, con un transito dall’assurdo al beffardo, si viene a sapere che lassù c’è della gente e che “è stata una piacevole sorpresa constatare che sono ungheresi, ormai perfettamente acclimatati alle grandi variazioni di temperatura e alle altre condizioni del luogo”.
Il meccanismo anamorfico in “Pensieri in cantina” è rapida epifania finale. La figlia della portinaia senza una gamba, persa sotto un tram, s’accontenta di recuperare la palla dei ragazzi che giocano in strada. Ambientazione e soggetto paiono da subito disporre l’atmosfera su un piano toccante e malinconico. La palla scivola in una cantina semioscura dove, in un angolo qualcosa si muove: “Micetto! Come sei capitato qui micettino?”. La bambina mutilata la raccoglie e torna veloce in strada. Una volta messa a fuoco la tonalità della novella nel patetico, l’a capo offre un’immediata traslazione il cui effetto è assieme straniante e grottesco, come si riporta appresso: “Il vecchio sorcio brutto e puzzolente – lui che era stato scambiato per un micino – rimase interdetto. Nessuno gli aveva mai parlato a quel modo. Prima di allora l’avevano sempre disprezzato, gli gettavano addosso del carbone oppure scappavano via spaventati. In quel modo e per la prima volta gli venne di pensare a come sarebbe stato tutto diverso se il destino l’avesse fatto nascere gatto. Anzi dato che siamo degli inguaribili scontenti continuò a procedere nelle sue fantasticherie. E se fosse nato figlia della portinaia con una gamba di legno? Ma quella era ormai una cosa troppo bella. Non riusciva neanche a immaginarsela”…
Il peso specifico della poetica delle Novelle da un minuto si condensa nel racconto incipitario “Che cos’è il grottesco”; quasi un manifesto ove Örkény consegna al lettore la chiave del mondo frammentario, spesso incoerente, sempre spiazzante ivi racchiuso. L’angolatura stravolta da cui vuole si leggano le novelle è calibrata in maniera tanto elementare quanto geniale: “Mettetevi, per favore, a gambe divaricate, piegatevi profondamente in avanti e, restando in questa posizione, guardate indietro in mezzo alle gambe. Grazie. Ora guardiamoci intorno e passiamo in rassegna ciò che vediamo. Ecco il mondo è a testa all’ingiù”. Tutto il mondo s’è rovesciato, le cose, gli animali e la gente, i fiocchi di neve salgono al cielo dove pattinatori volteggiano e anche l’immagine della morte si tinge d’un’allegrezza che ha del grottesco: “Cerchiamo adesso delle visioni più gaie. Ecco una sepoltura!”.
Il libro è estremamente godibile, e a più livelli. Un umore brillante si mescola perfettamente a un’angosciante inclinazione al particolare scioccante, assurdo e drammatico senza peraltro mai raggiungere tonalità serie o solenni. Si direbbe anzi che la componente regolarmente messa in gioco sia proprio la mistione di tali effetti, la cui risultante ultima è un’impressione di sospensione e d’indefinitezza, una straordinaria sensazione di inadeguatezza che resta nella memoria percettiva del lettore. D’altronde lo stile asciutto e spedito rende la lettura di queste piccole dolorose delizie ungheresi assai agevole e sempre gustosa.